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Una Tunisia al voto tra incertezze e terrorismo

di Salvo Ardizzone

Domenica 26 ottobre la Tunisia torna al voto per eleggere il nuovo Parlamento che designerà l’Esecutivo; malgrado la massiccia mobilitazione di forze di sicurezza, movimenti salafiti e gruppi terroristici come Ansar al-Sharia costituiscono ancora una minaccia al pacifico svolgimento della tornata elettorale. La Tunisia si trova infatti stretta fra la frontiera algerina, dove al sud l’Esercito si scontra sovente con formazioni salafite, e quella libica, con i pericoli d’infiltrazione di elementi jihadisti.

La situazione ha condotto ad una pesante stretta degli apparati di sicurezza sulla società, tanto da suscitare le proteste di Human Rights Watch e Amnesty International; tuttavia, fra la gente sono soprattutto i temi economici a tenere banco.

Secondo la Banca Mondiale, la disoccupazione resta sopra i livelli di prima della rivoluzione, ma sono soprattutto i giovani istruiti ad esserne colpiti maggiormente; in questo quadro, la frustrazione certo, ma soprattutto le ragioni economiche giocano un ruolo determinante nell’adesione di moltissimi tunisini (almeno 4mila) all’Isil, la più elevata dell’intero mondo arabo.

Per il resto, l’economia del Paese va male perché sconta l’instabilità del periodo rivoluzionario: bilancia commerciale in deficit, capitali in fuga e investimenti stranieri ancora latitanti specie nel settore del turismo, fondamentale per il Sistema; una situazione desolante che condurrà a nuove tasse (come già annunciato) per alimentare un bilancio asfittico e le sovvenzioni governative su beni alimentari e benzina.

In questo scenario, sono molti i tunisini insoddisfatti che ricordano i tempi di Ben Alì come quelli in cui “anche i più poveri potevano sopravvivere”; la pesante frustrazione delle aspettative rivoluzionarie potrebbe così tradursi in una massiccia astensione o in un consenso ai tanti elementi del vecchio regime riciclatisi nelle molte liste elettorali, ben 1.270. Tuttavia, malgrado l’altissimo numero di partecipanti, la partita vera si giocherà fra due formazioni: Ennahda e Nidaa Tounes.

Ennahda è la principale formazione della Fratellanza Musulmana in Tunisia; fra il 2011 e il 2013 ha guidato la maggioranza di governo ma finì travolta dai propri errori e dall’ondata di proteste conseguenti all’assassinio dei due leader dell’opposizione Chokri Belaid e Mohammed Brahmi. Ebbe però l’intelligenza di farsi da parte e di rinnovare radicalmente strategia e comunicazione, puntando la propria agenda su rilancio economico, lotta al terrorismo e rispetto delle regole democratiche. Così facendo ha spiazzato i propri oppositori, ma ha lasciato un certo spazio a movimenti salafiti che la condannano anche per l’esclusione della Sharia dalla Costituzione approvata il 26 gennaio 2014.

L’altra formazione, Nidaa Tounes, guida una coalizione che si dichiara laica; nella realtà fra le sue fila ci sono molti “azlem”, membri del ristretto cerchio di potere di Ben Alì, il vecchio dittatore che dal suo esilio dorato a Jeddah, in Arabia Saudita, guarda con interesse a queste elezioni. Un successo sull’onda della diffusa frustrazione per le mancate realizzazioni della rivoluzione, e sulla nostalgia delle antiche logiche clientelari, potrebbe rilanciare un vecchio gruppo di potere tutt’altro che disperso.

Comunque vada, sono in molti che devono augurarsi che la Tunisia, malgrado il terribile contesto in cui si trova inserita (guerra civile in Libia, crisi latente in Algeria e Sahel in continua ebollizione), possa trovare una definitiva stabilità; Italia in testa.      

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