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Ucraina: una tregua con troppi nodi da sciogliere

di Salvo Ardizzone

La tregua siglata a Minsk sembra tenere: nelle prime ore si registrano solo sporadiche violazioni, ma nella sostanza regge; resta da vedere se reggerà alle tante, forse troppe, ambiguità che hanno permesso quell’accordo.

Far saltare il tavolo del lunghissimo negoziato non conveniva a nessuno: né a Putin che, dopo aver giocato con successo la carta militare per riottenere l’iniziativa, non voleva (e non poteva) recitare ancora la parte del “cattivo” dinanzi al potente circo mediatico pilotato da Washington, con tutto quello che ne sarebbe venuto in termini d’aggravamento di sanzioni, aggressione economica e così via; né ai leader europei che si vedevano lo spettro d’una guerra vera in casa e il crollo definitivo d’ogni rapporto con la Russia; né tantomeno a Poroshenko, che ha un’economia allo sfascio con un disperato bisogno di denaro (tanto!) per evitare il default, e un esercito demoralizzato e battuto, incapace d’arginare l’offensiva dei separatisti.

Serviva un accordo a tutti i costi e dopo 17 ore ne è stato trovato uno, accantonando i nodi più critici. Appunto, quelli che verranno fuori alla prima occasione e, in mancanza di negoziati seri e approfonditi, faranno scoppiare nuove ostilità con reciproche accuse di malafede. E sono in molti a fare il tifo per il tanto peggio tanto meglio: a Washington, a Varsavia, nelle capitali baltiche e anche a Lugansk e Donetsk.

Tre sono i nodi su cui s’è deciso di non decidere, lasciando intatte le aspettative delle parti: intanto l’assetto politico delle regioni dell’Est, demandato a una riforma costituzionale che nei contenuti varia da una quasi indipendenza per i separatisti, con tanto di polizia e magistratura propria, a una sorta d’autonomia indefinita per Kiev. Inoltre il controllo delle frontiere con la Russia, che il Governo centrale potrà riavere dopo una riforma costituzionale che rischia di non vedere mai la luce. Infine, il più impellente, la sacca di Debaltsevo, che negli accordi non s’è neppure menzionata per non farli saltare alla partenza.

Debaltsevo è uno snodo ferroviario e viario vitale, posto fra Lugansk e Donetsk; ai tempi dell’offensiva di Kiev dell’anno scorso, il suo esercito s’è incuneato fra le due città separatiste, riuscendo quasi ad isolarle prima della controffensiva appoggiata da Mosca. La caduta dell’aeroporto di Donetsk, nei giorni scorsi, ha aperto la via per serrare il cappio intorno a quel saliente dove ci sono circa 8mila regolari di Kiev. L’ultima strada che porta fuori è da giorni sotto il fuoco continuo dei filorussi e, tutt’intorno alla sacca, ci sono stati scontri violentissimi fino all’ultima ora.

Adesso, quei soldati quasi privi di rifornimenti, da parecchi giorni in combattimento, con perdite giornaliere (tra morti, feriti, dispersi e prigionieri) fra i 60 e i 100 uomini, hanno ben poche scelte: o arrendersi dopo aver esaurito viveri e munizioni (e per Kiev sarebbe una sconfitta destabilizzante dalle conseguenze imprevedibili), o tentare il tutto per tutto, facendo saltare la tregua con tutto quello che ne verrebbe dietro.

Sono scogli su cui la tregua faticosa rischia di schiantarsi da subito; d’altronde, dopo tanto sangue e tante distruzioni, a una notte di negoziati non si poteva chiedere di più, e che tutti fossero consapevoli dell’importanza della posta è testimoniato dalla lunghezza della trattativa continuata ad oltranza. Lo stesso Poroshenko, pressato da una situazione sul campo disastrosa e una economica ancora peggiore, non poteva sbilanciarsi di più vista la composizione della Rada, dove i nazionalisti più accesi dettano legge. Già così avrà i suoi problemi a far passare una versione annacquata degli accordi, senza che i battaglioni delle milizie dell’estrema destra, ancora controllate da oligarchi e da organizzazioni manovrate da Washington, lascino il fronte per marciare su Kiev in nome della Patria “svenduta”.

L’Ucraina danza ancora su un baratro di sangue e di miseria, innescato da una crisi assurda voluta e pilotata dall’esterno, ancora ben lontana dall’essere conclusa. Comunque vadano le cose, è tutta la sua economia fatta da oligarchi, privilegi e inefficienza che si è collassata, e per il suo Popolo si è aperta una lunga stagione buia.

Ultima riflessione: Henry Kissinger, negli anni ’70, irrideva i tentativi di aggregazione degli europei, dicendo che non esisteva un numero di telefono a cui chiamare per parlare all’Europa. Ebbene, purtroppo, in quest’occasione come nel caso della crisi greca e delle altre prima, quel numero c’è ed è a Berlino. Ad ogni snodo essenziale, le decisioni che coinvolgono i Popoli e le Nazioni europee vengono sistematicamente demandate all’eterna Cancelliera dall’ottusa e pavida pochezza di governanti indegni di questo nome. E fino a quando questo non cambierà, non ci sarà Europa ma servaggio.

     

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