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Sviluppi e strategie nel pantano ucraino

di Salvo Ardizzone

La crisi ucraina continua a incancrenirsi; da cinque mesi, da quando, nel marzo scorso, nell’Est del Paese è cominciata la ribellione a Kiev, è stato un crescendo di sangue e distruzioni. Rifarne la storia sarebbe troppo lungo, diremo solo che, all’inizio di giugno, vasta parte dell’Est era saldamente in mano alle varie milizie della Repubblica Federale di Novorossya (Rfn), l’antico nome di quell’area, spalleggiate (e dirette) da circa 2mila “volontari” stranieri, nella sostanza spetznatz ceceni del Battaglione Vostok ed elementi del Gru (intelligence militare) e del Svr (intelligence estero) russi. 

Da quel momento, il nuovo presidente ucraino Poroshenko, spinto da Obama interessato più che mai a inchiodare Ue e Putin ad una crisi che ne frantumasse i rapporti, respinge ogni apertura di Mosca ed alza il livello del confronto: gli scontri si fanno più duri e i morti si contano a diecine. A metà giugno viene ripreso il porto di Mariupol, a mezza strada fra il confine russo e la Crimea, e il 5 luglio è Slovyansk a capitolare, mentre il territorio della Rnf viene eroso da ogni parte. 

In breve l’Esercito ucraino pressa da vicino Donetsk e Lugansk, le roccaforti dei separatisti, e per tutto luglio, e fino ai primi di agosto, villaggio dopo villaggio, taglia in due il territorio dei ribelli e isola quasi del tutto quelle città, riprendendo uno dopo l’altro il controllo dei valichi con la Russia. Putin è messo brutalmente dinanzi a una scelta: o abbandonare i separatisti a se stessi, decretandone in breve il collasso definitivo, o alzare ancora il livello dello scontro affrontando direttamente le Forze Armate ucraine.

Entrambe sono decisioni gravide di gravi conseguenze: lasciare che Poroshenko trionfi con la brutale forza delle armi sarebbe una sconfitta insostenibile, non solo perché ridimensionerebbe intollerabilmente il peso della Russia, ma perché la sua opinione pubblica, che già comincia a criticarlo per il limitato appoggio dato ai separatisti, non lo accetterebbe mai. D’altronde, intervenire militarmente in Ucraina, anche se rinnegandolo a parole, lo farebbe cadere in pieno nella trappola di Obama: sanzioni sempre più pesanti (a spese degli europei e non degli Usa), il progressivo logoramento di preziose relazioni commerciali e industriali costruite con i Paesi della Ue per anni (primario obiettivo di Washington), tracollo del rublo già acciaccato, l’accelerazione della fuga di capitali già in atto; insomma, la prospettiva d’un collasso.   

Putin decide d’intervenire; l’obiettivo è di ribaltare la situazione sul campo, come ha già fatto in Crimea,  per poi trattare da una posizione di forza, ma deve fare in fretta, prima che le ritorsioni economiche producano danni insostenibili. Nell’ultimo mese s’accelera il flusso (che peraltro c’era sempre stato) di “volontari” russi, ceceni e serbi (calcolati fra i 5 e i 7mila) e di armi pesanti: almeno un centinaio di carri da battaglia (Mbt) T64 e T72, circa 200 blindati per il trasporto truppe e da combattimento per la fanteria Bmp e Btr, decine di lanciarazzi Bm21 Grad, semoventi 2S1 e 2S9 e sistemi contraerei (non a caso, soprattutto negli ultimi tempi, l’aviazione ucraina sta pagando un prezzo molto alto, con l’abbattimento di numerosi aerei ed elicotteri); la resistenza attorno a Lugansk e Donetsk s’irrigidisce e l’offensiva di Kiev s’impantana in una serie di battaglie che mietono vittime a centinaia: ormai è guerra vera fra due eserciti, le milizie hanno ceduto il passo e fanno da contorno. 

Dopo il 20 d’agosto c’è la svolta definitiva: colonne russe vengono più volte segnalate e fotografate mentre varcano il confine ucraino; si tratta di Btg (Battalion Tactical Group), formazioni meccanizzate costituite da carri, blindati, artiglieria e copertura contraerea, con circa 1200/1500 effettivi ciascuna; gli insorti non ne fanno mistero, annunciandone addirittura l’arrivo. Dapprima si sviluppa una controffensiva di battaglioni “internazionali” nella zona di Donetsk, che respinge i reparti ucraini minacciandoli d’accerchiamento; contemporaneamente un’operazione analoga, supportata da un Btg russo, viene lanciata a Lugansk. Le azioni hanno successo e consolidano il controllo dei separatisti sulle autostrade di collegamento. Nel frattempo si riapre il fronte meridionale, dove un altro Btg sfonda facilmente le difese delle guardie di frontiera e attacca la cittadina di Novoazovsk, sul mare, conquistandola. È lì, come già a Donetsk, che vengono ripresi in azione dei carri T72b2, in servizio esclusivo con l’Esercito russo. 

Le cose si mettono male per gli ucraini, che ora temono una puntata sul porto di Mariupol; preso quello, per i tank sarebbe un gioco arrivare fino in Crimea, costituendo un corridoio sulla costa che la congiunga al territorio russo. Inoltre, lo sforzo prolungato già determina segni di cedimento; è del 28 agosto la notizia dell’ammutinamento di massa del V° battaglione della difesa territoriale, un’unità di volontari per troppo tempo tenuta in prima linea.

Il 26 agosto, a Minsk, a margine d’un incontro internazionale, Putin e Poroshenko hanno avuto un lungo colloquio a quattr’occhi; al termine il Presidente ucraino s’è detto pronto a discutere d’una strategia d’uscita dalla crisi che garantisca a tutti di venirne fuori con dignità, evidente riferimento ai problemi suoi e di Putin, ma è chiaro che quest’ultimo ormai non si fida e vuole garantirsi sul campo una posizione di vantaggio. 

Il fatto è che ad ogni giorno che passa, ognuno dei contendenti è costretto ad alzare la posta per la soluzione d’un conflitto che è divenuto un bagno di sangue: l’Onu ha calcolato negli ultimi cinque mesi almeno 2.600 vittime, con un’impennata verticale negli ultimi tempi, ma a quel conteggio mancano i caduti russi che, ufficialmente, non esistono e non vengono comunicati. Fra le associazioni delle madri, in Russia, girano già lunghe liste di soldati di cui non si sa più nulla, o sono stati sepolti in tutta fretta dalle autorità perché deceduti in “incidenti”, che ricordano quelle che circolavano durante le guerre cecene. E poi c’è il maledetto costo economico: Kiev, che già era messa male, si sta dissanguando, sprecando in una guerra senza senso gli aiuti che dovevano servire a rimettere in sesto l’economia; Mosca, come abbiamo detto, vede il suo rublo sbriciolarsi e i capitali fuggire via a frotte. Nel frattempo gli Usa e la Nato continuano a soffiare sul fuoco, proponendo l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza, esattamente quello che Putin non può accettare, e Poroshenko, che dopo essere stato spinto in tutti i modi a cercare la soluzione sul campo ora si vede i tank russi in casa, grida aiuto alla Nato e alla Ue.

In questo gioco al massacro fatto di rilanci, che a ogni mano rendono la soluzione più difficile, l’unica che continua a guadagnarci e Washington, che sta distruggendo i legami fra Mosca e l’Europa, mette in serie difficoltà l’economia russa senza pagarne il conto e, con la scusa d’un ritrovato nemico, ridà un senso al suo braccio operativo, la Nato, sotto la cui egida vuole rimettere in riga i riottosi europei. Un capolavoro fin’ora quasi a costo zero.

Sarebbe ora che tutti, Russi, Ucraini ed Europei, si rendessero conto d’essere manovrati contro i propri interessi. L’unica via sarebbe riconoscere che non può esserci una soluzione militare, come quella vagheggiata da Poroshenko, tornando all’accordo di febbraio, fatto saltare proprio dagli Usa col colpo di stato; ma il troppo sangue versato scava ogni giorno un fossato più profondo.  

  

 

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