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Spie, ricatti e kamikaze nel Grande Gioco di Sochi

di Salvo Ardizzone

Nel luglio scorso, il Principe Bandar bin Sultan Al Saud volò da Putin per uno scopo preciso: convincerlo ad abbandonare al suo destino il Presidente Bashar al Assad; sul piatto della bilancia buttava tutto il peso della ricchezza saudita (promettendo acquisti per miliardi e miliardi di dollari), ma anche una “protezione” contro il terrorismo in Russia, soprattutto in occasione dei giochi olimpici di Sochi, se Mosca avesse accettato.

Chi sussurrava quella promessa era ed è un vero “peso massimo”, il Segretario Generale del Consiglio di Sicurezza nazionale dell’Arabia Saudita, nonché responsabile dei servizi di intelligence. Come rispose Putin è storia: un secco niet che nei fatti rallentò fino a bloccare l’attacco Occidentale alla Siria.

Passano i mesi e il 3 dicembre il Principe è ancora a Mosca, e reitera l’offerta di protezione, ritornando a prevedere minacce sui giochi olimpici imminenti; ancora una volta Putin risponde picche e, meno d’un mese dopo, ecco gli attacchi terroristici di Volgograd.

Ma come può Bandar bin Sultan prevedere così bene gli eventi? No, non ha nessuna boccia di cristallo, per comprendere occorre solo fare un passo indietro: nel periodo di massima virulenza del terrorismo islamico nel Caucaso (gli anni fra il 2001 e il 2004), al tempo di Shamil Basaev, i Paesi del Golfo, e l’Arabia Saudita in particolare, presero ad appoggiare e finanziare massicciamente i separatisti impegnati in una lotta senza quartiere con le forze di sicurezza russe. Attraverso questo sostegno i servizi sauditi hanno infiltrato e finito per controllare le cellule terroristiche, che si sono “convertite” al fondamentalismo più radicale per non perdere i finanziamenti. Lo stesso Principe bin Sultan, nell’incontro di luglio, avrebbe ammesso di controllarli e di “sapere” che intendevano minacciare i giochi olimpici di Sochi, come, con singolare tempismo, veniva annunciato da Doku Umarov, dal 2007 autoproclamatosi Emiro del Caucaso.

Gli attentati di Volgograd sono stati insieme atti dimostrativi ed intimidatori, perché, come sanno bene tutte le cancellerie e tutti gli esperti del mondo, i kamikaze non si fanno esplodere a casaccio, per puro fanatismo. Gli attacchi di dicembre sono stati accuratamente pianificati e coordinati, nel tentativo di fare ulteriori pressioni su Mosca, mettendola dinanzi alla prospettiva di un attentato eclatante in un palcoscenico (le olimpiadi invernali) sotto gli occhi del mondo intero.

Di qui le misure straordinarie prese dalle autorità russe, che hanno praticamente militarizzato tutta la zona. E qui viene la conseguenza poco nota: la probabilità di un attacco terroristico a Sochi era ben presente a Putin prima che le venisse prospettata come un ricatto dal Principe bin Sultan; gli occorrevano specialisti per pararla, e lui, che se ne intende da ex colonnello del Kgb, sapeva pure che l’Fsb (l’agenzia succeduta al Kgb) per molte ragioni era ed è ben lontana dall’efficienza del predecessore. Così, durante l’incontro del 10 maggio del 2013, non gli è parso vero d’accettare la collaborazione che gli è stata offerta da David Cameron.

Fra i due Paesi esisteva infatti un’antica ed efficace collaborazione in tema di sicurezza, interrotta nel 2006, al tempo dell’affare Litvinenko (l’ex agente dell’Fsb ucciso con il polonio radioattivo), e del rifiuto di Mosca di estradare Andrei Luguvoi (oggi deputato della Duma) indicato dalla magistratura inglese come l’esecutore dell’omicidio.

Ma Londra aveva ed ha troppi interessi in ballo, a cominciare da quelli petroliferi con la colossale joint – venture Tnk – Bp, così, poche settimane prima dell’incontro di maggio, ha deciso d’insabbiare il caso, secretando di fatto le carte relative al caso Litvinenko, con una istanza del Ministro degli Esteri Hague all’Alta Corte di Londra, con la motivazione che la rivelazione di quei documenti avrebbe danneggiato gravemente gli interessi nazionali.

Gli affari sono affari, si direbbe, e con l’occasione del ricatto saudita, Russia e Inghilterra hanno trovato modo di riavvicinarsi. È il Grande Gioco, avrebbe detto Kipling, peccato sia scritto col sangue della gente.

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