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Report dal Kurdistan iracheno

Provincia di Erbil, ore 8 di sera, la nostra automobile si avvicina alla lunga fila del checkpoint che permette di giungere nella capitale del Kurdistan, un traffico raro per la città mai incontrato fino a quel momento. Veniamo da Kirkuk dopo una lunga giornata dove abbiamo incontrato Kamal Kirkuki, comandante delle forze peshmerga che combattono lungo i confini del settore 5 ed affrontano quotidianamente lo Stato Islamico.

La nostra automobile si avvicina al checkpoint ed il soldato intima l’Alt: un breve dialogo con l’autista, curdo ed originario di Erbil, nel quale il soldato chiede se “ci sono arabi a bordo”. “Non ho mai trasportato nessun arabo in vita mia!” risponde il nostro autista sorridendo, delineando una situazione reale ad Erbil ed in generale nel Kurdistan dove la popolazione araba sunnita viene vista come una minaccia perché spesso ha appoggiato l’avanzata o la difesa delle truppe di Abu Bakr al-Baghdadi.

La mente mi riporta all’incontro con il generale Atu Zibari presso l’avamposto di Khazer nel settore 7.1 a soli 18 chilometri da Mosul. Davanti ad un ponte distrutto fatto detonare dalle forze dello Stato Islamico, a soli un paio di chilometri dal fronte, il generale ci mostra un villaggio arabo sunnita e con un pizzico di rancore esclama: “Lo vedi quel villaggio lì? Per liberarlo le truppe peshmerga hanno combattuto non solo contro Daesh, ma anche contro la popolazione araba sunnita locale. Alcuni dei nostri uomini migliori sono morti a causa loro”. A questa affermazione gli uomini della nostra scorta, circa una quindicina di peshmerga  curdi, annuiscono facendo trapelare il dispiacere e la rabbia per la morte dei propri compagni.

Questa status di rancore o diffidenza nei confronti degli arabi, in particolare sunniti, lo percepiamo anche durante le nostre camminate nella città di Erbil. Invano ho cercato di comunicare in quell’arabo, appreso all’università e nei miei soggiorni in Medio Oriente e Nord Africa, con i commercianti o le persone del posto i quali, forse per il mio aspetto “arabeggiante” contraddistinto da una barba incolta, spesso hanno preferito non rivolgermi la parola. Eppure siamo nella Regione Autonoma del Kurdistan che, teoricamente, fa parte dello Stato iracheno e quindi l’arabo dovrebbe essere conosciuto almeno come lingua ufficiale.

Anche all’interno del campo rifugiati di Qushtapa non molto lontano da Erbil scopriamo un netto distacco tra i siriani curdi, la maggioranza, e quelli invece arabi. Prima di effettuare un giro per il campo lo stesso direttore Sirwan Abed ha dichiarato che la piccola comunità araba vive in un’unica parte quasi isolata, mentre dei cristiani provenienti dalla Siria non si hanno più informazioni ed ipotizzano che questi abbiano deciso di emigrare verso l’Europa.

Una Europa vista da alcuni come un miraggio, un sogno, la stessa Europa che in questi giorni è sconvolta dagli attacchi di Bruxelles e rivive l’orrore provato lo scorso novembre a Parigi. Eppure questo clima di paura e tensione non è nuovo nel Kurdistan ed in generale in Iraq. Atu Zibari ci aveva spiegato come molti dei suoi uomini erano morti per gli attacchi esplosivi suicida condotti dallo Stato Islamico contro le sue forze peshmerga al fronte; “Non è una strategia offensiva! È solo la volontà di ricordarci che Daesh c’è e la minaccia incombe su di noi ogni giorno. Non possiamo dormire sonni tranquilli!”.

È vero lo Stato Islamico c’è ma non appare più così forte come nel 2014. “Le forze peshmerga hanno lottato ed ora controllano un confine lungo 1050 chilometri che arriva fino a Sinjar” ci dichiara con soddisfazione il generale Hezar Umar Ismael, direttore del Dipartimento delle Relazioni e Coordinazione del ministero dei Peshmerga. “Oramai Daesh è sulla difensiva e noi riusciamo a controllare e difendere i nostri confini. Se vogliamo però sconfiggere definitivamente questa minaccia abbiamo bisogno di più aiuti ed armi. Abbiamo 1.7 milioni di profughi e rifugiati ma non riceviamo abbastanza dalla Comunità Internazionale. Mi dica lei perché invece la Turchia ha ottenuto dall’Unione Europea 3,5 miliardi di euro?”. A questa domanda io ed i miei colleghi ci troviamo spiazzati.

Alla fine tutta questa guerra, questo clima di terrore, rientrano nei giochi politici ed economici che coinvolgono la regione Medio Orientale da secoli e che vedono troppi interessi e poche soluzioni. Gli stessi interessi però che molto probabilmente porteranno ad un conflitto tra Erbil e Baghdad se la comunità internazionale non agisce in tempo. Infatti, prima di salutarci dall’altura di Qarrah, insieme ai suoi soldati, Kamal Kirkuki ha voluto sottolineare che le forze peshmerga hanno liberato con il proprio sacrificio ed il proprio sangue Kirkuk ed altre città che formalmente fanno parte dell’Iraq ottenendo notevoli benefici dai campi petroliferi della regione. “Siamo pronti a difendere questi territori conquistati a costo della nostra vita se la diplomazia internazionale non dovesse funzionare”, sono queste le parole del generale Kirkuki che ancora riecheggiano nella mia mente.

L’amore per la propria patria, la difesa dei diritti, la guerra contro un mostro che oggi si chiama Stato Islamico sono tutti aspetti secondari quando di mezzo ci sono i soldi dello sfruttamento dei pozzi petroliferi e delle risorse naturali.

Giuliano Bifolchi. Analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti e Relazioni Internazionali. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peace Building Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura specializzandosi in Open Source Intelligence (OSINT) applicata al fenomeno terroristico della regione mediorientale e caucasica. Ha collaborato e continua a collaborare periodicamente con diverse testate giornalistiche e centri studi.

di Giuliano Bifolchi

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