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Panico nei mercati valutari, la Banca Centrale cinese svaluta lo yuan

di Salvo Ardizzone

Martedì, con una mossa a sorpresa che ha gettato nel panico i mercati valutari e affossato le Borse, la Banca Centrale cinese ha svalutato lo yuan, ripetendo l’operazione nei due giorni seguenti; a rendere la mossa dirompente non è stata la misura della svalutazione, un pur considerevole 4,6% complessivo (in ogni caso la più grande da quando, nel ’94, Pechino ha introdotto un rigido controllo del cambio), quanto la dichiarazione che, d’ora in poi, “le forze del mercato avranno un ruolo ampio nella determinazione del tasso di cambio”, il che, tradotto dagli analisti, significa che ne seguiranno altre.

Insomma: dopo che il Giappone ha svalutato lo yen del 20% in 18 mesi e l’euro è sceso drasticamente rispetto al dollaro grazie al “Quantitative Easing” della Bce, adesso è Pechino a scendere in campo nella guerra valutaria in corso, che, a catena, con tutta probabilità vedrà svalutare molte delle monete dell’Estremo Oriente.

Secondo la People’s Bank of China, il draconiano controllo esercitato sui cambi da Pechino ha fatto apprezzare lo yuan sul dollaro del 17% in un anno e mezzo. Adesso, la mossa del presidente Xi Jinping e dei suoi strateghi finanziari tende a due scopi: da un canto rendere le merci cinesi più competitive, dopo la brusca caduta delle esportazioni a luglio e la vistosa frenata della crescita nel 2015; dall’altro, allentare il rigido controllo sui cambi per ottenere per lo yuan la qualifica di moneta di riserva internazionale (come il dollaro, l’euro, lo yen e la sterlina) da parte del Fmi.

L’economia cinese, dopo una lunga corsa spettacolare, fa ora i conti con gli squilibri accumulati per sostenere una crescita abnorme. Il debito pubblico e privato, senza contare le banche che sono un buco nero gonfio di crediti assai dubbi, dal 2008 è cresciuto dal 140 al 230% del Pil per sostenere uno sviluppo sempre più artificiale, fatto d’investimenti sempre meno produttivi: enormi acciaierie senza mercati di sbocco, intere città rimaste inabitate a gonfiare la bolla speculativa dell’edilizia, autostrade che conducono nel nulla, una borsa zeppa di titoli sopravvalutati da un’altra bolla speculativa (che sta conducendo alla rovina milioni di piccoli speculatori).

Per rimettere in carreggiata l’economia, Xi Jinping sa che deve rendere più “normale” (dal punto di vista del capitalismo, s’intende) un’economia che “normale” non è mai stata, copiando i mezzi dell’imperialismo finanziario da sempre impiegati dagli Usa. Per farlo, a parte sostenere le esportazioni e “raffreddare” una crescita divenuta ormai in buona parte artificiosa, deve mettere mano al progetto delle Nuove Vie della Seta, fatto di grandi investimenti infrastrutturali che mirano a un’intera piattaforma asiatica (e russa, che da sola vale un continente in termini di risorse naturali) unita sotto lo yuan. Che per questo deve divenire la moneta rifugio e di riferimento di tutta quell’area, capace di strapparla al dollaro; di qui le manovre sul cambio a beneficio del Fmi.

A far le spese della frenata dell’economia di Pechino e della sua nuova politica dei cambi, sono ancora una volta le economie dei Paesi emergenti presi ora in una morsa: da un canto la Cina non assorbirà più come prima le loro materie prime e produzioni; dall’altro, l’indebolimento dello yuan e il parallelo rafforzamento del dollaro in vista del prossimo rialzo dei tassi da parte della Fed, renderà il loro debito (espresso in dollari) sempre più pesante e insostenibile.

Ancora una volta saranno i Popoli a pagare con disoccupazione, povertà ed aumento delle diseguaglianze i meccanismi del capitalismo, resi ancora più aggressivi dallo scontro fra gli imperialismi: quello nuovo, cinese, e quello antico, americano.

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