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Carcere, non un mio crimine ma una mia condanna

Il carcere, quello di San Vittore, e la mia infanzia si sono intersecate per tanti anni, tanti quanti gli anni di condanna dati a mia madre. Varcare la soglia di questo antico carcere era sempre difficile e i miei sentimenti erano contrastanti. Tuttavia, per me i giorni più tristi erano tutte le occasioni di festa o importanti: il Natale, i compleanni, il primo giorno di scuola, le recite di fine d’anno, il ritiro delle pagelle, mia mamma non era mai presente era sempre lì a San Vittore. Questa diversità, questa solitudine era un buco nero che inghiottiva i sorrisi, le risa e gli abbracci in carcere con mia mamma. Ancora oggi ne soffro, sento che questa parte della mia vita non mi sarà mai risarcita.

Oggi il carcere non consente di uscire, anche se per poche ore, per essere presente a importanti eventi della vita familiare, se non quella per la scomparsa di persone molto vicine al detenuto. Per il bambino e l’adolescente l’assenza del proprio genitore alle proprie occasioni speciali è un’ulteriore sottolineatura della sua fragilità sociale ed una stigmatizzazione della sua condizione di “figlio di detenuto”. La condanna del proprio familiare, quindi, ricade in modo pesante sulla sua vita e si incide nella memoria in modo doloroso ed indelebile.

Per l’immaginario del bambino, che naturalmente mette al centro se stesso come artefice e protagonista di tutto di ciò che accade nella vita familiare, la non presenza del proprio genitore, in occasioni importanti, può provocare in lui la sensazione di essere il colpevole di qualcosa che ha avuto come diretta conseguenza l’allontanamento del proprio genitore.

Carcere e bisogni dei bambini

Si tratta, quindi, di cambiare prospettiva, di mettersi dalla parte dei bisogni dei bambini e non dai limiti giuridici dei genitori detenuti. Non si può perdere di vista l’aspetto psico-affettivo del bambino che ha il diritto, secondo l’articolo 9 della Carta ONU sui diritti del fanciullo, ad intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, fatto salvo l’interesse superiore del bambino; al quale va garantito la non discriminazione e ghettizzazione sociale. Bensì bisogna avviare, anche a partire dalla possibilità della presenza del genitore detenuto nei momenti importanti della vita del figlio, un processo di integrazione sociale e, più in generale, di profondo cambiamento culturale nei confronti del più vulnerabile: il bambino figlio di un genitore detenuto.

Mi chiamo Greta e ho ventitré anni. Durante la mia infanzia non ho potuto avere la mamma vicina nei momenti più importanti poiché era detenuta. Sono entrata per la prima volta in carcere per incontrare la mamma a 4 anni. La sala colloqui a San Vittore non era predisposta per i bambini, anzi non c’era nulla per noi. I colloqui erano con tutti gli altri detenuti, tra me e la mamma c’era un tavolo di marmo freddo e non era permesso di abbracciarsi. Intanto, Dario, mio fratello di 11 mesi, era con mia madre dentro ed io con la nonna fuori. Ero arrabbiata con mia nonna che ritenevo causa del mio allontanamento dalla mamma.

Il peso della vergogna

Per anni ho sentito il peso della vergogna soprattutto quando una bambina mi disse che aveva saputo che mia madre era in un carcere, che era una detenuta. Fu così che scoprii come era amara la parola detenuta. Arrivai da mia madre a San Vittore arrabbiata e piangente e non capivo, ero offesa e non sapevo con chi prendermela. Ci sono stati alcuni anni difficili tra me e mia madre, non le perdonavo quelle lunghe assenze, quei compleanni e quei momenti importanti trascorsi da sola senza la sua presenza. Oggi molto si è appianato tra noi e c’è molta complicità anche grazie a un nuovo arrivo per me di nome Gaia.

di Redazione

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