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Napoli: nelle “cittadelle” di Poggioreale, reportage dalla prigione che non dovrebbe esistere

di Cristina Giudici

Per le punizioni c’è la “cella zero”. Nelle altre, ventidue ore con la porta chiusa. La doccia è un miracolo. Qui la rieducazione è una chimera. Solo i lavoranti hanno le celle aperte nove ore al giorno. Le altre sono sempre chiuse, comprese quelle dei reclusi affetti da immunodeficienza.

Il 28 maggio scade il termine concesso dall’Europa all’Italia per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. E pagina 99 è andata a verificare la situazione sul campo. Entrando a Poggioreale, una delle carceri che ha suscitato le ire europee. Risultato: al di là delle parole e delle buone intenzioni, nulla è cambiato.

I 2.137 detenuti – con la sola eccezione di 200 lavoranti, ai quali è consentito uscire quotidianamente per nove ore – continuano a stare stipati tutto il giorno in celle anguste. Inclusi quelli affetti da Hiv. Qui, dove anche fare una doccia calda è un miracolo, la rieducazione resta una chimera. Nella prigione la voce dei reclusi non si sente. Chi trasgredisce la consegna del silenzio sa che rischia di finire nella cella zero. Quella delle punizioni.

Per arrivare al cuore del carcere di Poggioreale, a Napoli, bisogna fare giri infiniti. Lì è partita la solitaria campagna del capo dello Stato Giorgio Napolitano per chiedere riforme strutturali, amnistia e indulto. Ma l’appello del Presidente è stato ignorato dal Parlamento.

Per arrivare dentro quello che fu il feudo del boss della Camorra Raffaele Cutolo, nel carcere simbolo di tutte la patologie croniche del sistema penitenziario italiano, bisogna partire dal ventre della città. Dal rione di San Lorenzo, per la precisione.

Nel vicolo Trincherà il cappellano del carcere, don Franco Esposito, è riuscito a fare un “miracolo” che in altre Regioni d’Italia – dove l’attenzione alla questione penitenziaria è maggiore – è quasi un’ovvietà: ha creato una casa di accoglienza dentro un antico palazzo dell’Arcidiocesi, dove l’associazione “Liberi di Volare” ospita cinque detenuti, di cui quattro agli arresti domiciliari, per sottrarli alle patrie galere. “L’unica in Campania”, sottolinea don Franco, consapevole del terrificante significato di questa unicità.

E qui – dove ogni giorno qualcuno bussa alla porta in cerca di un rifugio, dove ogni mattina arrivano altri detenuti per lavorare al laboratorio di bigiotteria guidato da Nino Ricciolio per infilare perle di plastica acquistate dai pakistani e fare dei rosari – che alla sera si possono ascoltare i racconti, tutti da decriptare, su ciò che accade dentro Poggioreale.

Siamo nella Casa circondariale più antica d’Italia, la più problematica, la più sovraffollata. Una polveriera, insomma. Nonostante gli sforzi dell’amministrazione penitenziaria per far scendere i numeri, per ottenere quei benedetti 3 metri quadrati a disposizione di ogni detenuto, per evitare che la spada di Damocle della condanna dell’Unione europea si abbatta sullo Stato italiano dopo il 28 maggio (oggi i carcerati di Poggioreale sono passati da 2.700 a 2.137).

Per cercare di arrivare al centro dei dodici padiglioni – a cui sono stati dati i nomi delle città, come se ognuno fosse simbolo di cittadelle arroccate e inespugnabili – che si susseguono, uno accanto all’altro, bisogna ricordarsi che qui dentro c’è davvero un’altra Italia: un Paese parallelo, pieno di zone grigie, su cui sono stati puntati finalmente i riflettori.

E bisogna leggere le lettere scritte in italiano stentato che un detenuto mi lascia per ricordo, come se fosse un omaggio, di nascosto, per ricordarmi cosa accade di notte, nelle celle di transito, al piano terra, dove spesso vengono portati i carcerati per essere puniti. L’hanno chiamata la cella zero, ma sono tante le celle zero, secondo i loro racconti, fatti in modo teatrale e in dialetto, mentre mimano come avvengono le punizioni. E non esagerano, visto che in procura a Napoli ci sono 71 denunce e due inchieste aperte per lesioni e maltrattamenti.

C’è chi racconta di quella volta che un agente usò una racchetta da tennis, chi addirittura un martello di legno, persino per una televisione accesa con il volume forte. Forse esagerano, ma una cosa è certa: tutti gli sforzi del Dap, del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, per indurre gli agenti a concepire un carcere più normale, basato sulla sorveglianza dinamica, relazionale, per riuscire finalmente con 40 anni di ritardo a far applicare l’ordinamento penitenziario, che aspira alla rieducazione, non passano di qui.

Qui i detenuti, siano tossicodipendenti, omicidi, rapinatori, spacciatori (eccetto gli affiliati ai clan della Camorra) devono essere contenuti, sorvegliati e puniti. Certo, qualcosa è cambiato, qualche padiglione è stato ristrutturato, il sovraffollamento è diminuito e secondo la direttrice, Angela Abate, ora ci sono finalmente 1.300 docce nelle celle.

“Un miracolo per una struttura fatiscente dove sono riuscita a sistemare molte cose in economia, senza l’aiuto finanziario dell’amministrazione, con il lavoro dei detenuti”, afferma rigida e un po’ spaventata perché il Dap ha deciso di trasferirla dopo la pubblicazione del severo rapporto della delegazione europea su Poggioreale il 9 aprile scorso.

E forse trasformata in capro espiatorio di un carcere che non dovrebbe esistere, perché qui la soglia fisiologica dell’illegalità è stata superata troppe volte. E così, una volta varcata la soglia di Poggioreale, la direttrice ci tiene a farmi vedere le cose che sono migliorate, la sala colloqui per 9 (sic) detenuti in un piccolo spazio verde con addirittura un angolo per i giochi dei bambini.

E se è vero che Poggioreale è Poggioreale, e che qui dentro negli anni Ottanta i camorristi si sparavano addosso, è anche vero che nessuno può dimenticare la commozione di Napolitano, dopo la sua visita, a settembre, le denunce ripetute dei Radicali Italiani, dell’associazione Antigone, del cappellano di Poggioreale, don Franco, che mi ha mostrato la lettera della direttrice in cui lo accusava di sobillare i detenuti, perché durante la sua omelia affermava che fra i banchi della cappella non si stava in carcere, ma in libertà.

E poi ci sono quelle celle, che dovrebbero essere aperte secondo la riforma che sta portando avanti l’amministrazione penitenziaria, gradualmente socchiuse in molti istituti, perché un carcerato deve essere rieducato e non rinchiuso 20-22 ore in spazi angusti e sovraffollati. Non a Poggioreale però, dove entro dopo molte resistenze, e per la prima volta vedo un casa di reclusione, ora molto meno sovraffollata, dove non si sente la voce dei detenuti.

Un silenzio assordante per un carcere di oltre 2000 persone, interrotto solo al padiglione Roma, dove ci sono i tossicodipendenti. E infatti le uniche parole che sento sono quelle della direttrice che mi fa l’elenco di tutte le cose buone fatte in due anni, persino le sale colloqui senza vetri divisori. Finché un detenuto in sedia a rotelle da una cella strepita: “Sono chiuso qua dentro 22 ore al giorno e ora le fanno vedere che è tutto a posto, le hanno preparato una visita guidata, perché lei non veda e non senta niente, non si fidi!”.

Lei reagisce stizzita per dire al detenuto che lui non è autorizzato a parlare con me, mentre il comandante di Poggioreale, da vent’anni alla guida della casa di reclusione, Salvatore D’Avanzo, mi ripete per più volte che quello è un falso disabile, “perché quando ha fatto la rapina stava in piedi”.

Per cercare di trovare il cuore di Poggioreale, senza riuscirci, mi chiedo perché prima dell’arrivo della direttrice che vuole mostrarmi i miglioramenti fatti, alcune celle dove si insegna per dare un diploma elementare a 6 detenuti (sic) e persino un passeggio deserto, dove si gioca a basket due volte alla settimana – si narra che quando venne Napolitano provarono a portarlo proprio qui, a vedere una partita, e che il presidente chiese stizzito di essere subito condotto nei reparti detentivi – il comandante deve dirmi che i provvedimenti presi a Roma per aumentare i giorni di liberazione anticipata sono uno sbaglio, “perché poi tornano fuori a delinquere”, mentre un agente, sincero, afferma: “Qui dentro c’è solo la feccia, scarti di società”.

Per cercare quel cuore, che mi è stato raccontato all’esterno, e resistere all’elenco delle cose positive sciorinato dalla direttrice, legittimamente nervosa, perché non vuole andare via, perché è convinta di aver fatto cose che nessuno prima di lei aveva osato fare, mi chiedo come mai in tutto il carcere, 2.100 detenuti, ad avere le celle aperte per nove ore al giorno siano solo i detenuti del padiglione Italia, dove ci sono 200 lavoranti. Lì dove tre detenuti scelti da lei hanno l’autorizzazione a parlarmi, per dirmi che lì si sta bene (mai sentito un detenuto che dica di stare bene in un carcere: un ossimoro) grazie al supporto della direttrice.

E mi chiedo perché ovunque quasi, tranne nelle celle dove ci sono dei lavoranti, i blindati siano sempre chiusi, nonostante le indicazioni del Dap. Anche nel padiglione Roma, dove ci sono 264 detenuti, fra cui anche quelli affetti da Hiv, che si lamentano sommessamente perché non possono uscire dalle celle, tranne due ore al giorno. Neanche per giocare a basket, “perché i sieropositivi non hanno la forza per giocare”, spiega un agente.

Quando chiedo perché devono stare sempre chiusi, la direttrice mi spiega che non ci sono abbastanza spazi per la socialità, per la rieducazione e che forse in futuro, ora che il carcere è meno sovraffollato, lo farà, anzi lo vuole fare. E insiste che sono già in tanti a seguire i corsi di attività rieducativa, ma appena esco dal protocollo della visita guidata e chiedo a uno di loro (sono otto in cella) perché non ci vanno alle attività rieducative, loro dicono che hanno fatto la “domandina”, ma non hanno ricevuto alcuna risposta. “Impossibile”, nega la direttrice. Furiosa contro quella delega-zione di parlamentari europei, che hanno scritto cose false.

Perché nel loro rapporto, che ha suscitato un putiferio, hanno scritto “i detenuti passano 22 ore in cella, alcuni 24, poche celle sono dotate di docce, in alcuni padiglioni non arriva l’acqua calda, l’assistenza sanitaria è scadente, alcuni carcerati con patologie psichiatriche sono in celle d’isolamento”. Anche se poi lo si poteva leggere anche nel rapporto dell’anno scorso scritto dal presidente campano di Antigone, Mario Barone, che era riuscito a far fare pure un’interrogazione parlamentare per chiedere chiarezza sulle zone grigie, le celle lisce del padiglione Avellino, per chiedere conto dell’isolamento in cui si trovavano alcuni carcerati con problemi psichiatrici.

Dopo molte insistenze riesco a visitare la cucina centrale del carcere, da dove esce il cibo per quasi tutti in detenuti, (in realtà ce n’è una più piccola che mi mostrano prima di cedere alle mie insistenze): pasta al forno all’apparenza incollata, spinaci e carne, dentro contenitori di latta, che arriveranno freddi nelle celle di un carcere troppo grande per essere governato, una città nella città, dove i detenuti della commissione per il controllo della qualità del cibo, interpellati dalla direttrice, dicono “tutto a posto dottoressa, il cibo va bene”.

E per dimostrarmi la sua disponibilità mi mostra le nefaste docce comuni, vecchie e fatiscenti, che si trovano in diversi padiglioni dove le docce in cella non ci sono, e si possono fare “per tre volte alla settimana”, anche se i medici penitenziari poi mi diranno che se uno vuole fare una doccia calda in più deve avere un attestato che dimostri di avere problemi dermatologici.

E così in quel silenzio di carcere, dove ci sono solo 715 detenuti definitivi, gli altri tutti appellanti o in attesa di giudizio, dove nei passeggi non si vede nessuno, forse perché è giorno di colloqui, ma molti agenti, circa 400 destinati alla sorveglianza, e i pavimenti sono puliti, troppo puliti, la visita guidata finisce nel reparto Napoli (il Livorno dove ci sono i camorristi è off-limits) dove qualcuno dice “siamo inguaiati”.

E allora bisogna fare molti giri fra il ventre di Napoli e la parte superiore, su nella zona ospedaliera, dove la direttrice dell’Asl di Napoli 1, Antonella Guida, che coordina la medicina penitenziaria, ci tiene a spiegare le difficoltà di una sanità penitenziaria ora gestita dai medici esterni, che non hanno la necessaria agibilità per fornire l’assistenza sanitaria, “perché quello è un mondo chiuso, perché noi possiamo assistere solo i detenuti segnalati dalla direzione o dagli agenti, perché la buro-crazia impedisce ogni cambiamento”.

E forse ha ragione anche il direttore amministrativo dell’Asl Napoli 1, quando dice che loro hanno subito 45 processi per danni erariali perché hanno tolto privilegi e budget gonfiati a quella pletora di medici specialisti penitenziari, ma forse hanno ragione anche i detenuti quando dicono che loro chiamano il Buscopan la medicina di Padre Pio, perché ogni volta che lamentano un dolore ricevono solo e sempre le stesse medicine.

E allora se il Dap ha fatto qualsiasi cosa per cercare di evitare la condanna europea, per me che ho dovuto fare giri infiniti per arrivare al cuore nascosto di Poggioreale, senza trovarlo, è rimasto impresso un racconto. Quello di un detenuto, che era recluso nel padiglione Avellino, dove l’acqua calda arrivava – e per molto tempo questo stato un segreto per tutti. E i detenuti dovevano nascondersi dagli agenti per fare la doccia calda tutti i giorni. Perché nelle celle lisce si finiva, e forse ancora si finisce, anche per questo. Per una doccia calda di più.

Fonte: Pagina99

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