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Mali: interessi occidentali e malavita locale dietro la strage di Bamako

di Salvo Ardizzone

Almeno 27 morti è il bilancio provvisorio di un attacco terroristico a Bamako, capitale del Mali: intorno alle 7 del mattino un gruppo, stimato al momento in 13 uomini, è penetrato nell’Hotel Radisson Blue prendendo in ostaggio circa 170 persone. L’albergo, il più elegante della città, è frequentato da occidentali, personale di volo delle linee aeree straniere, uomini d’affari e di Governo.

Nel pomeriggio è scattato un blitz in due tempi: il primo per liberare gli ostaggi, il secondo per setacciare le 190 stanze ed eliminare i terroristi asserragliati per ore nella struttura. All’attacco avrebbero partecipato Forze Speciali francesi giunte nel pomeriggio ed elementi di quelle americane, per supportare gli impreparati reparti locali.

Secondo una dichiarazione resa da un Ministro maliano, al termine dell’operazione, dichiarata conclusa intorno alle 19, tutti gli ostaggi superstiti sarebbero stati liberati ed i terroristi uccisi.

L’azione, la cui dinamica nel tardo pomeriggio non è del tutto chiara, ha controverse paternità: secondo Al-Jazeera i terroristi apparterrebbero ad Ansar al-Dine, secondo ambienti della sicurezza del Mali sarebbero miliziani di Al-Mourabitoun, il gruppo guidato da Moktar Belmoktar, con connotazioni apertamente banditesche e criminali, che avrebbe già rivendicato il massacro.

Sia come sia, malgrado l’immediato clamore dei media e i sermoni dei sedicenti esperti, l’attacco ha finalità e scopi totalmente slegati dalla partita aperta in Medio Oriente, ed è collegato strettamente ad interessi economico-politici locali.

Come abbiamo più volte ribadito, il Sahel è una costellazione di Stati semifalliti sull’orlo dell’implosione, dove bande criminali assumono etichette per coprire traffici puramente delinquenziali.

Il Mali era stato quasi travolto nel 2012-13, salvato solo dall’intervento di Parigi che nell’area ha interessi enormi; paras e legionari hanno stabilizzato la situazione permettendo a Boubakar Keita di vincere le elezioni e insediare un Governo basato sulle solite promesse di un radicale cambiamento. Da allora corruzione e malgoverno hanno continuato a dilagare peggio di prima, sotto lo sguardo complice della comunità internazionale che vi mantiene una massiccia quanto inconcludente missione Onu, la Minusma, che impiega 12mila uomini solo per puntellare un regime corrotto quanto inetto.

Nel giugno scorso, a Parigi sono stati siglati degli accordi di pace che tutti sapevano essere di facciata, perché non solo hanno lasciato volutamente fuori gruppi come Ansar Al-Dine e Al-Mourabitoun (come se gli altri collegati strettamente ad Al-Qaeda fossero boy scout) ma, per non scontentare nessuno, non hanno toccato i problemi di fondo del Paese.

In buona sostanza s’è trattato d’un accordo con un gruppo di capicosca, che la diplomazia, sotto la spinta di Governi e multinazionali, voleva raggiungere ad ogni costo per “pacificare” il Paese e permettere che lo sfruttamento dell’area (e i traffici che l’attraversano) continuasse. Il risultato è stato un nord del Paese rimasto fuori controllo malgrado la presenza del contingente Onu, e la minaccia solo rinviata.

L’attacco di venerdì, che tutti gli esperti veri s’aspettavano, ha un duplice scopo: da un canto destabilizzare un Governo tale solo di nome, delegittimandolo dinanzi alla comunità internazionale da cui dipende; dall’altro dare un brusco segnale ai Paesi ed alle multinazionali che hanno voluto gli accordi di Algeri, dimostrando che senza gli autori dell’azione sono lettera morta.

Un avvertimento mafioso in piena regola da parte di chi conosce bene gli immensi interessi che sono in ballo.

Il controllo del Sahel e delle sue carovaniere, permette traffici enormi di cocaina dal Sud America ed hashish dal Marocco diretti in Europa, oltre a quelli sempre più redditizi di esseri umani, e poi di armi, di sigarette, alcolici e così via. Inoltre, a parte i taglieggiamenti delle Major che sfruttano i campi di petrolio e gas più a nord, nel Sahara, ci sono le altre ricchezze minerarie del Sahel; soprattutto quell’uranio, vitale per la Francia, gestito dal colosso minerario Areva.

Dalle miniere di Arlit e Akokan in Niger e delle altre in Centrafrica, Parigi tira fuori a prezzi stracciati il fabbisogno per le sue centrali e il suo arsenale militare; per questo è così attiva nell’area e nell’agosto del 2014 ha lanciato l’Operazione Barkhane, che unifica (potenziandole) tutte le sue missioni precedenti. Una forza di almeno 4mila uomini fra paras, forze speciali, reparti scelti e legionari (che Hollande ha deciso a ottobre di portare a 6mila) suddivisa fra Niger, Ciad e Mali, organizzata fra basi operative e basi avanzate che coprono non solo gli accessi alle zone minerarie ma anche gli snodi carovanieri, per avere il controllo di un territorio giudicato strategico.

L’attacco di Bamako è un brutale avvertimento a fare i conti con chi di quel territorio si sente padrone, e Belmokhtar, autore della più accreditata rivendicazione, è abituato a simili intimidazioni, come ha già fatto nel 2013 con l’attacco alla raffineria di In Imenas in Algeria.

Con buona pace dei tanti commentatori e media che continuano a prefigurare apocalittici scontri di civiltà o a mettere l’Islam di mezzo, è stato un raid di stampo delinquenziale, a tutela dei propri traffici ed a rivendicazione di un controllo criminale.

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