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Lobby ed istituzioni europee: democrazia a rischio?

di Cinzia Palmacci

Un rapporto di Transparency International focalizza l’attenzione sulla scarsa trasparenza ed eguaglianza nell’accesso alle istituzioni europee delle lobby o gruppi di pressione. Il lobbismo va considerato parte del funzionamento di una democrazia, e così la pensa anche Transparency International. Ma spesso una parte dei processi attraverso cui vengono influenzate le decisioni pubbliche resta nascosto e passa attraverso canali informali. E qui cominciano i rischi e aumenta la vulnerabilità delle istituzioni. Capita che emergano conflitti di interesse o che certi gruppi godano di un accesso privilegiato a chi prepara e prende le decisioni. E poi c’è la corruzione dei politici. Alcuni sono stati beccati con le mani nel sacco: chiedevano soldi ad alcuni giornalisti che si fingevano rappresentanti di importanti gruppi di pressione o lobby, per poi presentare emendamenti alle direttive europee “lobby friendly”.

Nel registro europeo della trasparenza sono attualmente iscritte 7.821 organizzazioni, di cui 4.879 dichiarano di avere come obiettivo quello di influenzare le decisioni politiche delle istituzioni per conto delle aziende. Exxon Mobil, Shell, Microsoft e Deutsche Bank sono in cima alla lista delle imprese che spendono di più nell’attività di lobbying: le prime tre 4 milioni e mezzo di euro, la banca tedesca 3,9 milioni. Neanche a dirlo,  dominano i settori della farmaceutica, della finanza, delle telecomunicazioni, dell’energia e dei trasporti. In fondo alla lista troviamo politiche regionali, bilancio, affari interni, aiuti umanitari e le politiche per la periferia dell’Unione Europea. Bisogna precisare che l’attività di lobbying e l’influenza indebita non sono necessariamente sinonimi. La prima è certamente volta a influenzare le decisioni pubbliche per conto di un cliente o di un gruppo d’interesse, ma se è svolta alla luce del sole e rappresenta interessi legittimi in modo trasparente non pone alcun problema etico o politico. La seconda invece è un’attività opaca, subdola, volta esplicitamente a condurre un gioco sleale. È un processo discriminatorio perché favorisce solo determinati interessi a scapito di altri, e può portare a varie forme di corruzione. Attività che contraddistingue soprattutto grandi gruppi finanziari che antepongono i propri interessi a quelli legittimi. Dopo Washington, Bruxelles è la città al mondo con la maggiore concentrazione di lobbisti. Nell’Unione Europea l’iscrizione al registro è volontaria e questo getta un’ombra pesante sul livello di trasparenza: 14 dei 20 studi legali più grandi del mondo che hanno una sede nella capitale belga (tra cui Clifford Chance, Whitye&Case, Sidley Austin) non sono nella lista, ma undici di questi sono registrati come lobby organisations a Washington, dove la registrazione è obbligatoria. A dominare la scena a Bruxelles sono i lobbisti che rappresentano associazioni di imprese e del commercio. Il rapporto di Transparency International misura la performance dei singoli Paesi e delle istituzioni Ue per quanto riguarda la regolamentazione delle lobby in tre aree specifiche: trasparenza, integrità, e parità di accesso al processo decisionale. I risultati dello studio sono preoccupanti. L’Europa non regge certo il confronto con Canada e Stati Uniti: dei 19 Paesi esaminati, solo 7 presentano leggi o regole specifiche che disciplinano le attività di lobbying (Austria, Francia, Irlanda, Lituania, Polonia, Slovenia e Regno Unito). Anche in questi Paesi, tuttavia, le regole esistenti spesso non sono in grado di garantire gli standard richiesti di trasparenza, integrità e parità di accesso. Se si considerano tutti i Paesi e le istituzioni UE prese in esame, il punteggio medio è pari ad appena il 31%, ben al di sotto del livello ideale. L’unico Paese che ottiene un punteggio superiore al 50%, insieme alla Commissione Europea, è la Slovenia, dove norme precise impongono ai funzionari pubblici di riferire ogni comunicazione avuta con i lobbisti. Anche nel caso sloveno, non mancano però vuoti normativi e carenze attuative. Mentre, in quanto a regolamentazione delle lobby, l’Italia ottiene un misero 20% collocandosi al terzultimo posto. Peggio dell’Italia hanno fatto solo Cipro e Ungheria (14%). Anche gli altri due Paesi mediterranei presi in esame, Spagna e Portogallo, hanno ottenuto un punteggio migliore: rispettivamente, 21 e 23 su 100. Il problema principale è la mancanza di trasparenza, che crea l’humus favorevole per favorire indebitamente solo una ristretta cerchia di poteri.

Le origini prevalentemente anglosassoni delle lobby

Da un punto di vista squisitamente etimologico, il termine lobby nasce intorno al diciannovesimo secolo in Regno Unito per fare riferimento all’atrio antistante la House of Commons, deputato a luogo di incontro tra i parlamentari e la società civile, già allora rappresentata da quei “gruppi di interesse” a cui, per metonimia, è oggi affibbiato l’appellativo di lobby. Da allora il lobbismo è diventato un fenomeno tipicamente anglosassone esportato anche oltreoceano. Quello vigente negli Stati Uniti è il modello classico di regolamentazione dei gruppi di interesse, da tempo immemore additato dall’opinione pubblica nostrana come sintomo di un sistema costituzionale anomalo, difettoso. Si tratta di una valutazione dovuta più che altro all’associazione mentale della realtà lobbistica alla “lobby delle armi” (la National Rifle Association) e all’influenza di questa nelle scelte politiche americane in un settore, quello della regolamentazione delle armi da fuoco, che il nostro background culturale non ci permette di comprendere a pieno. Nel contesto statunitense, piuttosto, il fenomeno delle lobby ha tratto linfa vitale dalla trasformazione costituzionale che è seguita, seppur senza il formale mutamento della struttura decisionale, al passaggio dall’epoca liberale al modello “interventista” avviato con il New Deal, che ha progressivamente reso il Congresso, prima “motore” del governo federale, “un legislativo dalla produzione lenta e accidentata, per lo meno per ciò che riguarda le leggi di grossa incidenza politico-sociale”. Questo fenomeno è stato ancora più enfatizzato dalla crescita di influenza di cui godono i particolari interessi organizzati presso i singoli membri del Congresso, dove i lobbyists premono per ottenere misure che li avvantaggino, a prescindere dalla compatibilità di queste con il programma politico generale e contro ogni attesa di lavoro legislativo programmato, specie in ambito finanziario. Tuttavia non va dimenticato che in America è presente una legge che regola in maniera ferrea l’attività dei gruppi di pressione; l’attività è regolata in modo chiaro, i bilanci sono tutti pubblici esattamente come pubblici sono i finanziamenti alla politica. Si tratta del Federal Regulation of Lobbying Act del 1946 che, finalizzato a ridurre l’influenza dei lobbisti e incrementarne la trasparenza, ha trovato, dopo diverse modifiche improntate tutte a rendere più severa la disciplina, una sua riformulazione con il Lobbying Disclosure Act del 1995 in via definitiva, o quasi. Gli elementi essenziali di questa disciplina sono ben evidenti. Da una parte, un’efficace perimetrazione, in quanto a definizioni, delle nozioni di “attività di lobbying” (ai sensi della quale si intende ogni contatto lobbistico ed ogni attività svolta a sostegno di tale contatto, compreso la preparazione, la programmazione, la ricerca ed ogni altro lavoro preparatorio), di “contatto lobbistico” (ogni comunicazione orale o scritta, comprese le comunicazioni elettroniche, comunque indirizzate ad un pubblico ufficiale appartenente ad un ufficio esecutivo o legislativo, svolta per conto di un cliente, e riguardante la formulazione, la modifica, l’adozione di una qualsiasi politica o presa di posizione del Governo degli Stati Uniti), di “lobbista” (con cui ci si riferisce a tutti coloro che, comunque stipendiati in denaro o altra forma, da un cliente per servizi che includono più di un “contatto lobbistico”, utilizzano il 20 per cento del proprio tempo di lavoro per l’attività di lobby, nell’interesse di quel cliente, in un tempo di tre mesi) e infine di “pubblico ufficiale”, sia esso appartenente all’esecutivo (Presidente federale, Vice Presidente, un qualsiasi impiegato dell’Ufficio esecutivo del Presidente, dell’Executive Schedule, dei Servizi militari o comunque un impiegato che determini, decida o consigli politiche pubbliche) o al legislativo (e quindi i membri del Congresso, i loro membri dello staff, le Commissioni e i leader delle camere). Dall’altra parte, l’obbligo di registrazione dei lobbisti così come avviene per gli impiegati delle camere, in modo da agevolarne l’identificazione e la trasparenza nei contatti tra questi e i “pubblici decisori” e, in tale dinamica, l’introduzione di limiti posti ai donativi e ad “altre lusinghe” offerte ai parlamentari. Tutto ciò ha indubbiamente introdotto una maggiore trasparenza nella vita politica di Washington, senza però essere in grado di contrastare l’efficacia politicamente centrifuga del fenomeno lobbistico che, a detta di molti, costituisce oggi il fattore di maggior peso determinante nei concreti sviluppi della legislazione federale. Ovviamente l’emanazione di queste leggi che regolamentano l’attività delle lobby non esclude che non vi siano attività illecite, ma questo normativismo ferreo aiuta non poco ad individuarle.

I TTIP sono il “cavallo di Troia” delle lobby

Greenpeace ha pubblicato recentemente un documento riservato di 248 pagine che dimostra le pressioni degli Stati Uniti all’Unione Europea nei negoziati sul TTIP. Gli Usa chiedono all’UE di rinunciare al “principio di precauzione” e di giustificare l’eventuale voto contro la commercializzazione di prodotti Ogm. I documenti pubblicati da Greenpeace Olanda constano di 248 pagine in un linguaggio legale tecnicamente complesso: 13 capitoli di “testo consolidato” del TTIP più una nota interna dell’UE sullo stato del negoziato (Tactical State of Play of TTIP Negotiations – March 2016). Greenpeace Olanda ha lavorato assieme al rinomato network di ricerca tedesco di NDR, WDR and Süddeutscher Zeitung. Fino ad ora i rappresentanti eletti avevano potuto vedere parte di questi documenti in stanze di sicurezza, con guardie, senza consulenti esperti e senza poterne discutere con nessuno. Con questa pubblicazione, milioni di cittadini hanno la possibilità di verificare l’operato dei propri governi e discuterne con i loro rappresentanti. Secondo Greenpeace il documento confermerebbe tutte le preoccupazioni espresse negli ultimi anni dalla società civile e le associazioni ambientaliste, convinte che il trattato di “libero scambio” rappresenti una minaccia per le economie di molti paesi, dando il via libera a multinazionali e potenti lobby industriali di accedere, influenzandoli pesantemente, ai meccanismi decisionali delle norme Ue fin dalle sue fasi preliminari, con un pericolo per i processi democratici. Il TTIP è “una porta aperta per le lobby delle ‘corporation’” secondo Greenpeace, che accusa gli USA di un “deliberato tentativo di cambiare il processo decisionale democratico dell’Ue”. Dai TTIP leaks risulterebbe evidente l’intenzione degli Stati Uniti di costringere l’Unione Europea a rinunciare al “principio di precauzione” come base per la gestione del rischio nell’approccio legislativo riguardo alle politiche di protezione della salute e dell’ambiente, e in particolare per la regolamentazione delle sostanze chimiche, dei pesticidi, degli Organismi geneticamente modificati (che vengono citati nei documenti con il termine “moderne tecnologie in agricoltura” e mai con la loro sigla Ogm).

Secondo Jorgo Riss, direttore dell’Ufficio europeo di Greenpeace, “per gli Usa, se una sostanza sul mercato presenta un rischio, quel rischio va gestito. Per l’Ue, invece, quella sostanza va evitata, e, quando è possibile, sostituita con una sostanza alternativa meno rischiosa”. L’Ong sottolinea che “il principio di precauzione è iscritto nei Trattati Ue, ma sorprendentemente, non viene citato neanche una volta in queste 248 pagine, come se all’Ue non interessasse difenderlo. Così come – ha notato ancora Riss – non viene mai menzionata neanche la clausola delle ‘Eccezioni generali’ che da quasi 70 anni è presente nei trattati commerciali internazionali (art. XX Gatt/Wto), e che consente agli Stati di decidere restrizioni al commercio ‘per proteggere la vita o la salute umana, degli animali e delle piante’, e per ‘la conservazione delle risorse naturali esauribili”.

Le lobby dietro le presidenziali americane

Il fatto che vi siano delle lobby anche dietro le elezioni presidenziali americane, ci da la misura di quanto possano essere potenti, e di quanta pressione siano in grado di esercitare queste attività. La candidata Hillary Clinton ne sa qualcosa, avendo ricevuto cospicui finanziamenti da parte di lobbisti e banchieri. In prima fila infatti c’è George Soros. L’uomo che distrusse la Banca d’Inghilterra ha versato nelle casse della Clinton, per lo meno la parte ufficiale, 6 milioni di dollari. Altri sostenitori facoltosi sono gli israeliani Haim and Cheryl Saban, che hanno versato 3 milioni di dollari. Dulcis in fundo come non menzionare i 675 mila dollari versati a Hillary Clinton dalla Goldman Sachs?

L’altro candidato, Bernie Sanders, ha raccolto una somma non indifferente: circa 75 milioni di dollari. Alcune società però si muovono sotto la luce del sole, nell’elargizione dei propri contributi. Una di queste è la Apple. Da quando il fondatore Steve Jobs è morto, la società ha speso una fortuna in lobbismo, circa 27 milioni di dollari, ricevendo in cambio molti vantaggi, come l’operazione Trans-Pacific Partnership. Anche la lobby delle case farmaceutiche non è da meno: suddivide i suoi investimenti privilegiando i repubblicani, cui destina il 63% dei 20 milioni di dollari investiti (11 milioni di dollari), e lasciando da parte una cifra  anche ai Democratici, 6 milioni e mezzo di dollari (non gli piace fare torto a nessuno). Non stupiamoci troppo se tra i lobbisti al Parlamento Europeo ritroviamo anche la Walt Disney, l’industria del porno e l’Ikea, che invita a pranzo gli eurodeputati (previo montaggio della tavola), per discutere della nuova legge sul regime fiscale.

Certo, come sia possibile farsi eleggere a suon di vagonate di milioni di dollari dalle industrie petrolifere, farmaceutiche, bancarie, finanziarie ecc…, e garantire poi di avere come priorità l’interesse dei cittadini, è una menzogna tutta politica alla quale la gente sembra essersi assuefatta.    

Conclusioni

Sebbene da più parti si invochi una legge sulla trasparenza dell’attività lobbistica, che altrimenti rimarrebbe in un limbo pericoloso di “interessi oscuri” e strane alleanze tra criminalità e politica, ciò che potrebbe  veramente cambiare il malcostume imperante, non è una singola legge (che può essere sempre aggirata), ma una seria presa di coscienza sulla gravità della situazione generale della società politica sia interna che estera, che affonda nella corruzione e nell’avidità di denaro e di potere. Finché l’uomo sarà corrotto, corruttore e corruttibile, nessuna legge umana potrà mai cambiare le cose. L’aver importato cattivi modelli stranieri che consideriamo “oracoli” di saggezza e portatori di benessere, non ha che peggiorato la situazione generale. L’affarismo spregiudicato si è impossessato anche di istituzioni da sempre percepite come democratiche, volte all’interesse generale e non certo particolare, ma che ora rischiano di diventare un’officina di faccendieri al soldo delle solite grandi multinazionali.

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