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L’instabilità dell’economia cinese fa tremare le Borse di tutto il mondo

di Salvo Ardizzone

Ancora una volta la Cina fa sprofondare le Borse di tutto il mondo, sommando le sue convulsioni al crollo del prezzo del petrolio, alla crisi fra Iran ed Arabia Saudita, alla paura per l’atomica coreana. Una tempesta perfetta per mercati mai ripresisi del tutto dal trauma della crisi del 2008.

Giovedì la Borsa di Shanghai ha vissuto il suo giorno più corto di sempre: in 29 minuti, compresa una sospensione temporanea di 15, ha perso il 7,2% prima che la seduta fosse chiusa.

Alla base di questa instabilità, che brucia masse di valori enormi e terremota la finanza mondiale, c’è il fallimento del “mercato con caratteristiche cinesi”, il sogno dirigista del Governo di Pechino che pensava di dominare anche i flussi mondiali del denaro.

La Cina ha conosciuto una crescita portentosa e anche adesso, che viaggia “solo” intorno al 6,5% di incremento annuo, è una straordinaria eccezione, e dispone anche di riserve monetarie mostruose (3.300 miliari di dollari), ma questa è solo una faccia della medaglia.

La crescita in gran parte non è stata sana ma artificiosa (e a quei livelli non sarebbe potuto essere altrimenti), drogata da immensi investimenti in inutili quanto costose opere pubbliche; da una folle corsa al mattone che ha generato una smisurata bolla speculativa sull’edilizia che ora rischia di scoppiare; da un sistema creditizio che definire inefficiente e opaco è un eufemismo; da un debito pubblico spaventosamente alto; da un’economia dopata da infiniti aiuti, che finiscono soprattutto a quella di Stato in mano all’establishment ammanigliato con il potere; da una corruzione onnipresente malgrado la lotta intrapresa da Xi Jinping per contenerla.

Il Paese, da fabbrica del mondo di prodotti mediocri (diciamo spesso pessimi) a bassissimo costo, basata su una mano d’opera super sfruttata e sul totale disprezzo d’ogni regola e dell’ambiente, che manteneva i privilegi di una sterminata casta di “mandarini”, ha cercato di divenire qualcos’altro. Adesso si trova nel frangente più difficile, in cui non può più rimanere ciò che era prima, ma è ben lontano dall’aver cambiato pelle (se mai ci riuscirà).

È il momento più pericoloso e le convulsioni imprevedibili del suo gruppo dirigente, che reagisce in modo contraddittorio ad ogni nuova crisi, son fatte apposta per atterrire i capitali e farli fuggire verso altri lidi più sicuri.

Lo yuan continua a svalutarsi, e non è affatto detto che sia un bene per le sue esportazioni, perché l’enorme massa di denaro che esce in cerca di migliore remunerazione, finisce per sostenere l’economia finanziaria di Washington, il suo primo nemico.

Difficile dire se le riforme tanto conclamate da Xi Jinping vedranno mai la luce, e se l’economia cinese saprà sanare le proprie enormi storture. Di certo, da sostegno dell’economia globale, con le sue contraddizioni comincia ad essere vista come un pericolo. Grave. Perché l’esplosione di una delle sue tante bolle speculative (di cui s’avvertono tutte le avvisaglie) avrebbe ripercussioni immense in tutto il globo.

Nel frattempo Pechino reagisce come tutti gli imperialismi della Storia, celando le proprie debolezze interne con un’aggressività sempre maggiore. Il resto del mondo può rassegnarsi a rimanere sulle montagne russe, scosso da crisi sempre più ricorrenti, originate da bolle finanziarie e storture dell’economia cinese, o dalla crescente sete di potere del nuovo Impero di Mezzo. E sperare in un’improbabile normalizzazione.

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