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Libia: dopo le trattative farsa, l’Occidente mette gli scarponi sul campo

di Salvo Ardizzone

Dietro il paravento delle eterne trattative per costruire un governo di unità nazionale in Libia, l’intervento dell’Occidente è già in pieno svolgimento: Forze Speciali americane, francesi, inglesi ed anche italiane da mesi sono sul posto per prendere contatti, identificare obiettivi e sostenere i gruppi armati a cui ci si intende appoggiare.

Dopo un periodo di stasi, adesso tutto ha avuto un’accelerazione per due ragioni: da un canto scuotere l’empasse che gli stucchevoli maneggi fra i due parlamenti-farsa di Tripoli e di Tobruk hanno imposto alla vicenda; dall’altro, e più importante, impedire che i miliziani dell’Isis danneggino irreparabilmente le infrastrutture petrolifere, come hanno cominciato a fare a Ras Lanuf e altrove (lo fanno perché non sono in grado di sfruttarle e colpiscono così l’unica fonte di ricchezza dei loro avversari).

A parte il raid americano su Sabratha contro una base del Daesh, ci sono stati attacchi aerei francesi su Sirte, altri egiziani e un’improvvisa offensiva dell’esercito di Tobruk, guidato dal generale Haftar, che ha strappato gran parte di Bengasi ai suoi nemici. È quest’ultima operazione che, assai più delle altre, spiega la vera situazione: Haftar è un signore della guerra che con il pieno appoggio egiziano (e degli Usa) controlla quelle che dovrebbero essere le forze armate del governo di Tobruk. È principalmente sul suo ruolo che si sono impantanate le trattative per la formazione di un governo di unità nazionale: il parlamento di Tobruk lo vorrebbe a capo della Difesa; quello di Tripoli, e soprattutto le milizie vicine alla Fratellanza Musulmana che lo reggono, lo vedono un nemico mortale, anche perché è l’uomo di Al-Sisi.

Con l’improvvisa offensiva, il Generale ha sloggiato il Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi (un’alleanza fra i qaedisti di Ansar Al-Sharia e gli islamisti del Libyan Shield e della Brigata Martiri del 17 Febbraio, vicini a Tobruk) sia dal porto, essenziale per i rifornimenti, sia da vasta parte della città, relegando gli avversari in soli tre quartieri. Contemporaneamente, li ha scacciati da Ajedabja, 150 chilometri più a sud-ovest, sulla via che porta ai porti petroliferi.

In passato Haftar ci aveva provato più volte, ma le sue forze scalcinate erano sempre state respinte; le cause del successo di adesso stanno nelle massicce forniture di armi dall’Egitto (il suo sponsor principale); nell’afflusso di rinforzi proveniente dalle milizie di Zintan, nell’entroterra di Tripoli, trasportate da aerei cargo egiziani ed emiratini; ma soprattutto nell’intervento di Forze Speciali francesi da tempo schierate nella vicina base aerea di Benina.

Il contingente di circa 150 uomini, basato su elementi del Cos (Commandement des Operations Speciales) e del Servizio di Azione del Dgse (i Servizi francesi esteri), non solo ha preso parte ai combattimenti, ma ha diretto le operazioni guidando il personale libico.

La notizia di un simile coinvolgimento (peraltro largamente noto negli ambienti militari) pubblicata da Le Monde, ha mandato su tutte le furie il Governo francese che ha annunciato un’inchiesta per la sua divulgazione, ma si è guardato bene dallo smentirla nettamente. Come ripetuto, è un fatto che laggiù operino da tempo anche americani, inglesi ed italiani; il target dell’Isis di Sabratha, colpito dagli F-15E partiti da Lakenheath in Inghilterra, sorvolando lo spazio aereo francese, è stato “illuminato” da Special Forces sul posto per essere centrato.

Ciò detto, il successo di Haftar, che tenterà di liberare non solo il resto di Bengasi dai miliziani avversari ma anche la via verso i porti del petrolio, lo rafforzerà nella trattativa per la formazione del nuovo governo, rendendolo di fatto inamovibile. E il sostegno francese è una chiara scelta di campo accanto all’Egitto nella partita libica.

Qualora le trattative fra le parti continuassero a rimanere invischiate fra i veti incrociati delle varie milizie (nelle cui mani è il potere reale), le Cancellerie occidentali stanno cominciando a prendere in considerazione una divisione della Libia fra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, al Sud, il più incontrollabile, diviso com’è fra bande criminali dedite a ogni traffico e l’endemica guerra fra le tribù Tebù e quelle Tuareg.

Un progetto che piace poco all’Italia, e all’Eni meno che a ogni altro. La compagnia italiana è l’unica rimasta laggiù ad estrarre petrolio e gas, grazie a legami storici e ad un radicamento che non ha eguali; conoscendo la realtà sul campo e le intenzioni (vere) degli altri Paesi occidentali, essa vede di pessimo occhio un intervento armato che assai difficilmente porterà ad una soluzione, ma certamente frantumerà quanto resta dei deboli equilibri esistenti.

Comunque sia, la macchina militare s’è messa in moto: il 22 febbraio la portaerei nucleare Charles De Gaulle ha lasciato il Golfo Persico, ed al contempo, fra allestimento delle basi italiane (si è già riunito il Consiglio Supremo di Difesa), preparazione di contingenti di Forze Speciali, rischieramento di aerei e movimento di flotte, tutto è pronto per una nuova avventura nei fatti già iniziata.

L’Italia è quella che in Libia ha più da perdere e più rischia, ma per come si stanno delineando alleanze e posizioni sul campo, malgrado le tante rassicurazioni internazionali, è più che probabile che rimarrà tagliata fuori dai giochi (in fondo, anche la tempistica dà da pensare nella crisi nata con l’Egitto a seguito dell’uccisione di Regeni). E come nel passato, è a lei che toccheranno i cocci: in ogni caso, sia che l’operazione vada in porto (cosa improbabile) e gli Occidentali mettano stabilmente piede in Libia; sia che finisca in un ennesimo disastro (cosa assai probabile), la posizione dell’Eni finirà scossa. A non parlare dell’ondata di migranti mossi dai nuovi combattimenti, che come sempre riguarderà soltanto lei. L’ennesimo capolavoro.

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