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Libia al collasso, chiusi i terminal petroliferi

di Salvo Ardizzone

Il più importante terminal petrolifero libico, quello di Es Sider, al confine fra Tripolitania e Cirenaica, è chiuso da giorno 13 per i pesanti combattimenti in corso fra la Petroleum Protection Guard di Ibrahim Jadran e i miliziani della coalizione Alba e degli altri gruppi che da agosto controllano Tripoli.

Nello stesso tempo, più a Ovest, le milizie di Zwara stanno decidendo se bloccare il gasdotto che, partendo da Wafa, nei pressi del confine algerino, porta il gas al terminal di Mellitah, e da lì, attraverso i 520 km del gasdotto sottomarino Green Stream, fino a Gela. Sarebbe una ritorsione contro gli attacchi aerei indiscriminati condotti dal Governo di Tobruk, uscito dalle elezioni farsa del febbraio scorso.

Nel sanguinoso caos succeduto alla caduta di Gheddafi, i nodi stanno venendo al pettine: al di là delle dichiarazioni di rito, è una guerra per il controllo del petrolio e del gas libici; un altro capitolo della durissima lotta per il potere (e il controllo sugli idrocarburi) in atto nel Mediterraneo e in Medio Oriente: dalla parte del governo di Al-Hassi, insediato a Tripoli, stanno le milizie islamiche di “Alba”, vicine alla Fratellanza Musulmana, appoggiata da Turchia e Qatar. Con il governo di Al-Thinni, insediato a Tobruk, stanno i resti dell’esercito libico, i miliziani di Zintan e quelli del sedicente generale Haftar, sostenuti a spada tratta da Egitto ed Emirati con l’Arabia Saudita a finanziare al solito con fiumi di denaro.

Da settimane le milizie del premier Al-Thinni hanno lanciato un’offensiva in tutto il Paese contro gli uomini dell’altro premier Al-Hassi; la gente di Misurata ha reagito cercando di impadronirsi dei terminal petroliferi di Es Sider e Ras Lanuf, scontrandosi con gli uomini di Ibrahim Jatran. Il risultato è stato la chiusura dei porti e l’allontanamento delle petroliere, ma anche far schierare quella milizia con il governo di Al-Thinni, che ha subito fatto bombardare dall’aviazione gli attaccanti.

In questo inestricabile ginepraio di alleanze e cambiamenti di fronte, l’inviato dell’Onu, Bernardino Leon, sta tentando freneticamente di portare tutte le fazioni a un tavolo negoziale; l’incontro, prima previsto per il 9 dicembre, è slittato al 17, ma, al punto in cui sono degenerate le cose, è impensabile un accordo: la frammentazione e la confusione sono massime, nessuno può rappresentare tutte le tribù e le milizie, e sono in troppi, da fuori, che soffiano sul fuoco della guerra.

Quella che è messa peggio è l’Italia, che s’è già visto chiudere il terminal petrolifero di Es Sider, usato per la gran parte dall’Eni, e, da un momento all’altro, può veder cessare il flusso di gas del Green Stream, proprio mentre aumentano i problemi col fornitore russo.

È l’ennesimo frutto avvelenato della scellerata vicenda che tre anni fa è nata dall’avidità della comunità internazionale fra le sabbie libiche, condotta male e gestita che peggio non si poteva. È l’ennesima conseguenza sciagurata dell’incapacità del nostro Paese di tutelare i propri interessi e del suo sistematico assoggettamento a quelli terzi: di Washington, Parigi o Riyadh poco importa.   

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