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Le strategie Usa per il controllo del Pacifico

di Salvo Ardizzone

Nel mondo che è mutato e che continua a mutare, l’egemonia globale degli Usa è sempre più messa in discussione, soprattutto sul piano economico e commerciale; per questo sono costretti ad inventarsi strumenti nuovi per tentare di mantenere il predominio.

In campo commerciale gli Stati Uniti avevano già provato a imporre le proprie condizioni con il Doha Round della Wto (World Trade Organization), ma il tentativo di dettare regole uniche alle economie di tutto il globo s’è rivelato impossibile e, dopo estenuanti trattative, già nel 2008 il negoziato s’è impantanato irrimediabilmente. A questo punto gli Usa hanno sostituito il modello globale della Wto, troppo ampio e con dentro realtà troppo diverse per poter funzionare, con l’idea di creare più patti, magari geograficamente circoscritti, ma più omogenei e con contenuti assai più ampi e vincolanti, funzionali alle esigenze di egemonia di Washington nelle varie aree del globo, e alle sue esigenze strategiche.

Nell’area Asia–Pacifico, l’impellenza degli Usa era (ed è oggi più che mai) contenere la crescita dell’influenza cinese; nel 2001 avevano commesso l’errore madornale di sottovalutare Pechino, permettendole, praticamente senza contraccambi, di entrare nella Wto; i risultati si sono visti: con il libero accesso ai mercati globali l’economia cinese è esplosa, ma dall’altra parte, ha continuato a manovrare il suo cambio a piacimento, a favorire le proprie imprese con massicci aiuti di Stato, a violare sistematicamente le norme sulla proprietà intellettuale, copiando prodotti in barba a ogni brevetto. Per evitare d’essere travolta, ed arginare l’attivismo di Pechino in un’area ritenuta vitale, Washington ha pensato di creare un blocco così forte e così allettante da spingere la Cina a entrarvi, e per farlo, a rispettarne le norme. 

L’occasione è stata l’invito all’adesione (invero sollecitato con discrezione e con singolare tempismo nel 2008, quando il Doha Round s’era arenato) a un modesto accordo commerciale fra quattro piccoli Stati del Pacifico: Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. Con gli Usa lo strumento è cambiato completamente, come pure gli obiettivi e i temi degli accordi: è stata la nascita del Trans Pacific Patnership (Tpp). Ora gli Stati che hanno manifestato la volontà di aderire sono 12 (con dentro un peso massimo come il Giappone, oltre a Canada e Australia e praticamente tutte le economie emergenti dell’area) e rappresentano il 40% del Pil e un terzo del commercio mondiale. 

Per comprendere quanto sia importante per Washington, basta ricordare che contemporaneamente al dilatarsi delle ambizioni e degli ambiti geografici del Tpp, sono state diffuse le nuove linee strategiche che inauguravano il “pivot to Asia” di Obama. Non è un semplice accordo commerciale, è il pilastro economico e diplomatico della politica asiatica Usa; se fallisse, il “pivot to Asia” crollerebbe, peggio, rimarrebbe solo un ombrello militare sotto la cui ombra rassicurante i Paesi dell’area del Pacifico correrebbero a fare affari con Pechino. Un capolavoro alla rovescia che accollerebbe a Washington i pesantissimi costi di sicurezza per permettere a quegli Stati di collaborare con la Cina in tutta tranquillità, determinandone l’ascesa definitiva, nell’area come nel mondo. 

Pechino ha preso molto sul serio la minaccia, e ha lanciato un’offensiva geopolitica e diplomatica attivando una serie di iniziative multilaterali con molti Stati dell’area. Le proposte cinesi sono potenzialmente assai allettanti per Paesi che già hanno fortissimi rapporti commerciali con la Cina e non sarebbero condizionati da scomode regole in materia di tutela dei lavoratori o protezione dell’ambiente, come avverrebbe nell’ambito del Tpp. Tuttavia, un tale approccio metterebbe queste economie fuori dai rapporti con il blocco euro-atlantico che, malgrado la crisi, vale almeno un terzo del commercio mondiale, senza parlare della possibilità che vada in porto l’altro progetto Usa, quello del Ttip, ideato per controllare l’Europa, imbrigliando l’eccessivo attivismo tedesco ed emarginando la Russia a spese degli europei. Dinanzi a un simile scenario, la Cina si vedrebbe costretta a unirsi al club, accettandone le regole e rinunciando ai sogni d’egemonia. Ma è realistico?

Diciamolo chiaro: il Tpp è uno strumento tagliato su misura per le multinazionali Usa, quelle, oltre cento, che infatti si sono unite nella Us Business Coalition for Tpp per sponsorizzarlo e fare lobbing, quelle che hanno da sempre dettato l’agenda delle Amministrazioni di Washington, ma passerebbe su una marea di fallimenti di piccole e medie aziende a Stelle e Strisce e non solo, uccise dalla concorrenza, nei fatti sleale, portata da Paesi dove la manodopera è sfruttata e il rispetto di norme di sicurezza o ambientali pressoché sconosciuto. E questo, nella sostanza avverrebbe comunque al di là di sigle sui trattati, perché ipotizzare controlli veri in quei Paesi è un’utopia. Negli Usa l’hanno capito bene e un sondaggio recente mostra un 62% di elettori sfavorevoli a un’accelerazione degli accordi, determinando una valanga di posizioni critiche di politici che hanno fiutato l’aria.   

Inoltre, la Cina, forte della propria potenza economica, ha altre frecce al proprio arco; a parte gli accordi con la Russia, altro soggetto che Washington vuole escludere e “punire”, la coincidenza di vedute e gli strettissimi rapporti con la stragrande maggioranza dei Paesi che dovrebbero aderire al Tpp, fanno si che la tentazione di entrare in quel club si faccia strada. Sarebbe un incredibile capolavoro se il Dragone, una volta dentro, giocasse di sponda con le altre economie a lei legate non solo da fattori economici, ma da interessi analoghi nella gestione del commercio, del lavoro e dell’ambiente. Gli Usa, che tanto si sono spesi e si spendono per costruire il Tpp, verrebbero messi brutalmente dinanzi alla scelta fra accodarsi, alle condizioni di Pechino e degli altri, o uscirne. 

I presupposti, e senza il peso massimo cinese, si vedono già: da WikeLeaks s’è appreso che Washington s’è trovata il più delle volte isolata in molti dei temi che le stavano più a cuore. È una partita ancora tutta da giocare per l’egemonia sull’area del Pacifico, ma le carte degli Usa, delle loro multinazionali e delle loro lobby, stavolta potrebbero essere perdenti.      

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