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Le conseguenze non previste del drastico calo del prezzo del greggio

di Salvo Ardizzone

La guerra del petrolio dichiarata dall’Arabia Saudita per mettere in crisi i produttori di shale oil statunitensi e canadesi, oltre che per colpire Russia ed Iran, ha innescato una spirale discendente dei prezzi che pare ormai inarrestabile.

Malgrado sia stato abbattuto anche il muro dei 40 $ al barile, le prospettive permangono al ribasso almeno fino al 2020 perché ad elementi congiunturali si sono ormai saldati elementi strutturali.

Fra i primi c’è che le riserve sono ormai saturate e non possono più assorbire la produzione in eccesso; inoltre, l’arrogante decisione saudita di mantenere al massimo la propria produzione al di là della quota Opec, ha di fatto distrutto il cartello: l’abbandono del tetto dei 30 ml di barili/giorno ha in pratica sancito un “liberi tutti”, per cui ogni produttore si regola ormai autonomamente.

Fra i secondi, sul lato dell’offerta di fatto s’è posto il tetto del “break even” americano sul petrolio derivante da scisto (50-60 dollari al barile), al di sotto del quale i produttori di shale oil tornerebbero a produrre in massa, rimettendo in circolazione grandi quantità di greggio che impedirebbero la risalita dei prezzi. Sul lato della domanda, il rallentamento dell’economia cinese e, anche di riflesso, di molte altre economie emergenti, rende stabile l’attuale surplus di offerta di petrolio sui mercati.

La prospettiva ormai di lungo periodo di prezzi bassi, fa emergere almeno quattro conseguenze.

Prima: i mancati introiti della rendita petrolifera metteranno a rischio la stabilità di alcuni Paesi produttori, in testa l’Algeria, che ha necessità di “comprare” la pace sociale con forti elargizioni a pioggia, e la Nigeria, già in precario equilibrio, con un Nord abbandonato a se stesso e preda del terrorismo, e a Sud il Biafra che reclama una fetta maggiore di ricchezza.

Seconda: l’Arabia Saudita, il Paese che ha innescato la guerra dei prezzi contando sulle proprie riserve, ha visto falcidiare le proprie entrate assai più di quanto prevedeva, proprio quando la guerra nello Yemen, il sostegno alle varie guerre per procura, i contratti multimiliardari con cui si assicura l’appoggio degli “alleati”, oltre alle consuete spese fuori controllo della corte, hanno fatto saltare il bilancio dello Stato che chiuderà il 2015 con uno stratosferico deficit del 20% del Pil. Sarà costretta a tagliare drasticamente le spese ed abbandonare il cambio fisso del riyal aprendo le porte ad una forte svalutazione, pena essere rapidamente travolta. In ogni caso il suo peso sarà drasticamente ridimensionato.

Terza: la Russia continuerà il suo riposizionamento, già iniziato dopo la crisi ucraina e le sanzioni, traducendo la sua forza militare in geopolitica, bilanciando così il suo diminuito peso economico e cogliendo in questo modo nuove opportunità di sviluppo.

Quarta: gli investimenti nei giacimenti energetici più costosi (Artico, sabbie bituminose, off-shore Atlantico, Mare del Nord), programmati fino a poco più d’un anno fa, si stanno già indirizzando verso lo sviluppo delle più sicure ed economiche immense riserve di petrolio e gas iraniane, mettendo le premesse per il decollo del Paese, destinato con tutta probabilità ad un “miracolo economico sorprendente.

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