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L’arroganza saudita fa fallire il vertice di Doha

di Salvo Ardizzone

È fallito il vertice di Doha fra i Paesi produttori di greggio, sia appartenenti all’Opec che esterni al cartello come la Russia, per congelare la produzione e porre fine alla guerra per le quote di mercato che ha determinato il crollo dei prezzi del petrolio. A determinare l’insuccesso è stata ancora una volta l’Arabia Saudita, che ha respinto il compromesso proposto da Mosca ed accettato dalla gran parte degli altri Paesi.

Il Ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, aveva proposto di congelare il livello della produzione lasciando fuori l’Iran, fino a che esso non fosse tornato ai volumi di estrazione precedenti alle sanzioni. Occorre infatti ricordare che a causa di esse, la quota di produzione iraniana è stata occupata dagli altri Paesi produttori (Arabia Saudita in testa); pretendere che rimanga al livello di gennaio equivale a mantenere il regime sanzionatorio, proprio ora che l’industria estrattiva iraniana è tornata al centro dell’interesse dei mercati mondiali.

Inutile dire che Riyadh, abbandonando anche formalmente le scuse commerciali con cui aveva giustificato agli inizi la rottura unilaterale del fronte Opec, ha posto il veto a questa soluzione, pretendendo che Teheran rimanesse inchiodata a un livello di produzione minimo.

L’Iran, già a conoscenza della posizione saudita, non ha partecipato al summit ed ha definito ridicole le tesi di Riyadh; a marzo la sua produzione è già salita a 3,2 Mld di barili al giorno e conta di raggiungere i 4 entro il marzo 2017. L’Arabia Saudita, dal canto suo, ne produce già oltre 10 e ha fatto sapere di poter aumentare da subito la produzione di almeno un altro milione di barili.

Il fallimento del vertice era già scontato; malgrado i ministri presenti abbiano dichiarato che le trattative continueranno e che a giugno ci sarà un altro incontro, è ovvio che con questi presupposti si andrà incontro a un nuovo nulla di fatto.

Il risultato immediato è stato un contraccolpo sui prezzi del greggio che, risaliti nelle scorse settimane in attesa del summit, hanno subito un tracollo tornando sotto ai 40 $ al barile. A farne le spese per primi saranno i produttori di shale oil americano (il petrolio prodotto da scisti bituminose), soprattutto i più piccoli, messi fuori dal mercato dagli alti costi di produzione.

Malgrado questo scenario la Russia, obiettivo primario della guerra dei prezzi, sia pur soffrendo potrà resistere grazie alla svalutazione del rublo sul dollaro, alle riserve monetarie ancora consistenti ed al vasto programma di privatizzazioni che sta per essere lanciato. Chi rischia di uscirne a pezzi sono altri Paesi produttori: Nigeria, Ecuador, Venezuela, Angola ed Algeria, che per le storture mai risolte delle proprie economie dipendenti in tutto dal petrolio, rischiano il default e con esso la destabilizzazione.

Sia come sia, per adesso la guerra dei prezzi iniziata da Riyadh continua, anche se essa è la prima ad esserne investita, con il crollo dei ricavi che ha fatto schizzare il suo deficit a livelli record e la sta costringendo a falcidiare i programmi d’assistenza con cui s’assicura il consenso interno.

Per adesso, la fuoriuscita dal mercato dei produttori di shale più deboli, e i pesanti scioperi dei lavoratori del comparto petrolifero in Kuwait, stanno impedendo che il prezzo del barile crolli del tutto, ma, alla lunga, il protrarsi della posizione saudita potrebbe innescare una nuova spirale discendente delle quotazioni del greggio.

Sta di fatto che, per Riyadh, la partita è ormai contro tutti gli altri produttori mondiali a cui tenta di sottrarre quote di mercato con prezzi sempre più bassi. Resta da vedere per quanto potrà reggere ancora un’economia dipendente in tutto dal petrolio, con spese immense fuori controllo e i continui salassi dovuti a guerre senza fine (Yemen in testa), immensi acquisti di armamenti ed esborsi multimiliardari per comprarsi appoggi. E resta pure da vedere quale potrà essere alla lunga la reazione degli altri produttori, alcuni dei quali vedono minacciata la propria stessa esistenza dall’arroganza saudita.

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