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L’Argentina ad un passo da un nuovo default

di Salvo Ardizzone

Il 16 giugno, la Corte Suprema di Washington ha di fatto spalancato la possibilità d’un nuovo default dell’Argentina, respingendo l’appello del Governo di Cristina Kirchner contro la sentenza del giudice della corte distrettuale di New York Thomas Griesa. Quella sentenza è a favore di una operazione speculativa di alcuni hedge funds che, rastrellati bond argentini svalutati a seguito del default conseguente alla crisi del 2001, ne avevano richiesto il rimborso integrale.

In parole povere, nel dicembre 2001 l’Argentina dichiarò unilateralmente di non poter rimborsare i titoli del suo debito pubblico, avviando drastiche operazioni di ristrutturazione nel 2005 (per il 76% del debito) e nel 2010 (per il 16,4% del debito); fuori dagli accordi restava solo il 7,6% dei creditori. Alcuni hedge funds hanno rastrellato a prezzo stracciato bond rimasti fuori dagli accordi per un ammontare pari a circa l’1% del debito, e presso la corte di New York hanno intentato un procedimento contro il Governo argentino per ottenere il pagamento totale dei titoli.

A seguito della sentenza favorevole, entro il 30 giugno l’Esecutivo Kirchner è chiamato a pagare 1,33 mld di $, ma questo è il meno, perché la sentenza spiana la strada ad una pioggia di nuovi procedimenti da parte dei creditori che non hanno accettato la ristrutturazione del credito, e quel 7,6%, nel suo complesso, di miliardi di dollari ne pesa 15, oltre la metà delle riserve del Banco Central argentino; ma neanche questo è il peggio.

Il fatto è che il Governo, ristrutturando il debito, ha firmato una clausola che dà diritto a quel 92,4% di creditori che ha aderito ad accedere alle eventuali migliori condizioni che altri potessero ottenere; come dire il diritto al rimborso pieno per un importo di 120 mld, praticamente la luna ovvero una nuova dichiarazione di default.

A confermare la gravità della situazione, il 18 giugno è stata revocata la sospensione cautelare che impediva il sequestro dei beni argentini, e il Governo ha riconosciuto l’impossibilità d’effettuare i pagamenti previsti per il 30 giugno (in tale data scadono anche pagamenti relativi a bond ristrutturati per 225 ml di $ che, alla luce della sentenza, diverrebbero un’enormità).

Certo, nella sostanza, la sentenza ha permesso una colossale speculazione, qualcosa come un utile del 1.608% per gli hedge funds che hanno rastrellato titoli da creditori che li ritenevano ormai poco più che carta straccia, come dice Jeorge Capitanich, Capo di Gabinetto dell’Esecutivo, e mette in pericolo la più grande ristrutturazione di debito mai realizzata.

Peccato che Capitanich dimentichi di toccare l’argomento principale: il successo delle ristrutturazioni argentine, si è basato sul cinico principio di pagare il più possibile i “pesci grossi”, tipo Fmi, che avevano gli strumenti per opporsi, e mettere i “pesci piccoli” dinanzi al ricatto del prendere o lasciare (e per inciso, furono molti i risparmiatori italiani che, complici diverse banche nostrane, finirono scottati dai “tango bond”). L’alternativa, in fondo prevedibile, è stata quella offerta dagli hedge funds, che hanno comprato secondo la ricetta del “pochi, maledetti e subito”, per poi fare il proprio mestiere d’avvoltoi.

Il ministro dell’Economia Kicillof ha annunciato la possibilità d’una terza ristrutturazione, ma a parte la scarsissima credibilità che ha ormai l’Argentina, il tempo è terribilmente poco: la rata in scadenza al 30 giugno va onorata al massimo al 30 luglio, dopo è default, e la Kirchner ha bisogno di guadagnar tempo almeno fino al 2015, per far scadere la clausola del pari trattamento. Francamente pare una missione impossibile.

L’alternativa potrebbe essere una battaglia politica internazionale contro la speculazione, appoggiata da altri governi come quello brasiliano o messicano, ma per aver qualche probabilità di successo, dovrebbe procedere di pari passo ad una campagna di moralizzazione e trasparenza su patrimoni e ricchezze di chi ha governato l’Argentina, e dubitiamo molto che proprio la Kirchner possa azzardarsi su questa strada.

Poche notazioni ancora: la mazzata della sentenza e le sue dirompenti conseguenze, cadono su un Paese provato; da un decennio le politiche economiche  adottate dagli Esecutivi Kirchner (prima dal marito, ora dall’attuale Presidente) si sono basate essenzialmente sullo sfruttamento del boom della domanda internazionale delle materie prime, vendute grazie ad una sistematica svalutazione competitiva, che al momento è sfuggita di controllo e viaggia oltre il 25%. Ora questo meccanismo s’è inceppato: per l’alta inflazione la gente fa incetta di dollari, il Pil s’è quasi fermato e il surplus commerciale (su cui si basava l’economia) nel 2013 s’è ridotto ad appena 9 mld di $.

L’Argentina non ha sfruttato i momenti favorevoli, che pure ha avuto, per compiere riforme strutturali atte ad accrescere la produttività, e paga uno scotto aggravato da una mancanza di credibilità economica internazionale, che l’ha tagliata fuori dai mercati finanziari. Ora si trova su un sentiero obbligato che ha alla fine il baratro d’un nuovo default: a questo scenario dovrebbero riflettere certi improvvisati soloni di casa nostra, quando dettano fantasiose ricette finanziarie in merito alla cancellazione del nostro debito.

Parlare è facile, soprattutto per riscuotere consenso a buon mercato, ma come sempre i costi dell’irresponsabilità ricadono sui più deboli del Sistema Paese.

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