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La follia del sultano di Ankara

di Salvo Ardizzone

Salvate la Turchia da Erdogan; è questo l’appello che facciamo dinanzi all’incredibile crescendo di chi si sente un nuovo Solimano, quel Paese meriterebbe assai di più.

Dal 2002 al 2012, la Turchia ha compiuto un eccezionale balzo: il reddito pro capite è passato da 3.676 a 10.666 $ e il debito pubblico è passato dal 70 al 40% del Pil, mentre si contrava deficit e inflazione. In questo l’Akp (il partito islamico moderato) non c’entra molto, è vero che ha preso il potere nel 2002, ma s’è limitato a cavalcare il boom che andava di suo, limitandosi a non ostacolarlo.

Negli ultimi tempi le cose sono però cambiate e le stime del Fmi sulla crescita (che per anni hanno viaggiato su ritmi “cinesi”: +9,2% nel 2010, + 8,8% nel 2011) scendono intorno al 4% (ma questo prima dei fatti che diremo) e con molte ombre.

Il fatto è che nell’ubriacatura della crescita, la Turchia ha preso a vivere al di sopra dei suoi mezzi, aumentando l’indebitamento di persone e aziende; inoltre, in un quadro di naturale rallentamento dell’economia dopo tanto correre, il deficit delle partite correnti (vale a dire la differenza fra quanto si esporta e quanto si importa) s’è fatto assai alto, intorno al 7/8% del Pil. Questo verrebbe coperto dai capitali esteri in entrata, e qui cominciano i dolori seri.

Per molto tempo i Paesi emergenti hanno beneficiato delle politiche monetarie di Stati Uniti e Paesi dell’Eurozona, che riacquistavano i propri titoli sovrani, tenendone bassissimi i rendimenti. Da tempo però il tapering (gli acquisiti del Tesoro Americano) si contrae (-45 mld di $ al mese) e anche nell’Eurozona è lo stesso, spingendo i capitali che ne erano usciti a tornare su mercati ormai più stabili e sicuri, abbandonando in massa i Paesi emergenti, con un effetto domino marcato.

La Turchia è stata investita in pieno da questo fenomeno e la Lira turca s’è deprezzata giungendo ai minimi storici sul Dollaro, e, se si aggiunge l’effetto del deficit delle partite correnti di cui dicevamo prima, ha costretto la Banca Centrale ad una stretta dolorosa che ha portato il tasso dal 7,75 addirittura al 12% (vale a dire un notevole rincaro del denaro), con ovvi effetti recessivi su un’economia che rallenta già di suo.

Ma le cause economiche son solo una parte delle ragioni di inquietudine, che mettono in fuga i capitali (esteri e nazionali) e contribuiscono ad aggravare il quadro. Il problema è divenuto politico.

Erdogan, che come abbiamo detto, in un modo o nell’altro, è alla testa del Paese dal 2002 con il suo Akp, è sempre stato uomo dall’ego smisurato che gli ha fatto commettere parecchi errori, compensati dalla capacità di saper parlare alla pancia della Turchia profonda, quella dell’interno, dell’altopiano e della campagna; da qualche tempo, però, altre urla gridano più forte, e il suo discorso diviene sempre più sguaiato e improponibile.

Già coi fatti del Gezi Park dell’anno scorso, ha dimostrato una patologica incapacità a sopportare critiche, reagendo in maniera assolutamente spropositata e causando una crisi che ha fatto sprofondare la Lira turca. Da allora è entrato in contrapposizione frontale con chiunque mostrasse di criticarlo, e per primo con Fethullah Gulem, suo antico alleato che vive in esilio, e capo di Hizmet, un potente movimento culturale e religioso, assai ramificato nella società turca.

Senza voler entrare nei dettagli di una lotta di potere tutta interna, lo scontro è salito al calor bianco nel dicembre scorso, quando un’inchiesta per corruzione ha portato all’arresto di diverse persone vicine a Erdogan, fra cui i figli di tre suoi ministri, che si sono dimessi. Nel tentativo d’allontanare da sé ombre, ha sostituito altri sette membri del suo esecutivo, ma al contempo ha dato il via a due autentiche purghe: una nell’ambito della polizia, che ha trasferito centinaia di ufficiali tra Istambul e Ankara, togliendoli dalle loro mansioni e relegandoli a ruoli subalterni (ovviamente i primi son stati quelli che hanno svolto le indagini dell’inchiesta); un’altra, grazie a recenti leggi ad hoc, nell’ambito della magistratura, con una sequela di nomine ai vertici delle procure di personaggi “vicini” e la rimozione dei magistrati che seguivano l’inchiesta.

Il motivo di simili gesti, di per sé inconcepibili in un democrazia, è che Erdogan ha detto chiaro e tondo che l’inchiesta era tutta una montatura ordita per incastrare suo figlio Bilal, e, attraverso lui, colpirlo; un complotto orchestrato da Gulem tramite le sue molteplici relazioni. Gulem ha risposto per le rime, ma mentre infuriava la polemica, sono cominciate a filtrare intercettazioni assai compromettenti fra il premier e il figlio, subito diffuse viralmente su twitter. Si parlava esplicitamente di milioni da far sparire in fretta e d’altro ancora, prima che i giudici potessero indagare.

Incurante delle esortazioni dei politici del suo stesso partito, Erdogan ha perso letteralmente la ragione tuonando contro la rete rea di mettere quelle cose in piazza, arrivando a dichiarare:”Sradicheremo twitter. Non mi importa quello che potrà dire la comunità internazionale! Vedranno così la forza della Turchia!” confondendo nel suo delirio se stesso con il suo Paese e tanti saluti a inezie come libertà d’espressione, democrazia e simili. E rapidamente è passato ai fatti: nella notte fra il 20 e il 21 marzo, la Btk (autorità per le telecomunicazioni turca) ha bloccato l’accesso a twitter grazie all’ennesima legge ad hoc sul controllo di internet, giustamente definita legge bavaglio dall’opposizione, varata vedi caso a febbraio.

I dieci milioni di utenti turchi hanno reagito, e attraverso programmi criptati o modalità di navigazione protetta hanno sostanzialmente aggirato il blocco, come testimonia il mezzo milione di messaggi pubblicati nelle dieci ore successive al blocco. Il fatto è che Erdogan è letteralmente ossessionato dal potere, come dice Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione, ed è disposto a tutto pur di insabbiare l’inchiesta anti corruzione.

Il 30 marzo in Turchia ci saranno le elezioni amministrative e in molte città importanti, Istanbul in testa, per la prima volta il suo potere vacilla, e se si tiene conto che in agosto ci saranno le presidenziali con il voto diretto, si rende conto che, con l’arma dell’economia spuntata dalla frenata vistosa, quell’inchiesta può segnare la fine dei suoi sogni di gloria.

Pare che anche il Presidente Abdullah Gul si sia detto apertamente contrario al blocco di twitter, segnando una spaccatura in un antico sodalizio; capisce bene che simili azioni, oltre ad essere politicamente suicide, son fatte per spaventare i capitali, facendoli fuggire dalla Turchia nel momento peggiore.

Ma il “sultano”, nella sua follia, per ora non sente ragioni; a noi non resta che sperare che qualcuno salvi quel Paese da chi non merita di guidarlo.

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