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Iraq, giocoforza sulle missioni internazionali

C’è una questione di cui si parla ben poco e che testimonia direttamente come il Medio Oriente sia terra di guerre per procura, di conquiste, di vendita illegale e non di armi e di spartizioni. Il Colonialismo però doveva essere un capitolo della storia chiuso da un pezzo. In Iraq è in atto un giocoforza per cui la presenza militare straniera non è più gradita, eppure noncurante, essa prosegue e si “autoriconferma”. Di seguito si proverà a capire il motivo di questo dinamismo, ma prima è necessario rilevare un altro argomento per nulla dibattuto ma collegato al Paese in questione: che fine stanno facendo tutti quei mercenari stranieri che hanno combattuto per Daesh in Siria e in Iraq? La maggior parte dei Paesi di provenienza di questi “pseudo” mujaheddin non vogliono riprenderseli, neanche per incarcerarli. Dunque? In guerra si fanno prigionieri: ma dove tra l’Africa, l’Europa e il Medio Oriente? I mercenari sono gente armata, pagata e a servizio di una qualsiasi causa, è bene non scordarlo. Diventa importante allora focalizzare l’attenzione su cosa accade in queste zone calde, perché, e con quali protagonisti.

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Primo Ministro Conte a Baghdad

L’Italia è in missione in Iraq in modo consistente fin dal 2014, concretizzata nell’operazione “Prima Parthica” come contributo nazionale alla Global Coalition anti “Stato Islamco”. L’attuale comandante del contingente italiano è il Generale di brigata Nicola Terzano che assolve anche l’incarico di direttore dell’addestramento nell’ambito dell’operazione “Inherent Resolve”. I nostri militari non hanno compiti di combattimento, né possono entrare in territorio siriano. Essenzialmente hanno l’incarico di addestrare le forze armate e di polizia nazionali e locali del Kurdistan Iracheno.

Malgrado ciò, il Parlamento di Baghdad chiede che gli stranieri lascino il Paese. Roma, per dare un minimo di seguito a questa richiesta, il 1 Marzo del 2019 ha ritirato il contingente dalla Diga di Mosul, snodo essenziale per l’approvvigionamento idrico del Paese, dove per altro lavorava una ditta italiana per la messa in sicurezza dell’infrastruttura, la Trevi. Argomento questo già ampiamente dibattuto in precedenza, che ha focalizzato l’attenzione sulla grave crisi energetica e idrica della Nazione, sebbene l’Iraq giaccia su un mare di oro nero e sull’oro blu, tra il Tigri e l’Eufrate. Altra cosa è la missione americana, di cui noi siamo un nobile e distinto satellite, ma serviamo alla causa.

L’Iraq è un Paese importante: confina con l’Arabia Saudita, con la Giordania, con l’Iran, con il Kuwait, con la Siria e con la Turchia; possiede oro blu e oro nero e a proposito di quest’ultimo, l’Agenzia Nova il 2 Maggio riporta che le esportazioni petrolifere sono aumentate a 3,466 milioni di barili al giorno nel mese di Aprile dai 3,377 milioni di barili registrati a Marzo. Lo ha reso noto il Ministero del Petrolio in una dichiarazione. Le esportazioni dai giacimenti petroliferi meridionali di Bassora sono salite a 3,354 milioni di barili dai 3,254 milioni di Marzo. In totale, secondo le statistiche della compagnia statale irachena Somo, l’Iraq ha esportato 103,9 milioni di barili di petrolio nel mese di Marzo, con ricavi pari a circa sette miliardi di dollari. Il prezzo medio è stato di 67,419 dollari per barile.

Le ultime elezioni politiche sono state vinte dalla coalizione Sairoon guidata dal chierico sciita Al-Sadr, il 60% della popolazione è sciita, il 40% circa è sunnita ed esistono due città sante sciite, Najaf e Karbala visitate ogni anno da milioni di pellegrini; tra Iran ed Iraq ci sono forti scambi commerciali, specie nel Sud a Bassora, mentre nel Nord del Paese (zona anche questa ricca di petrolio) risiede l’importantissima minoranza curda.

L’Iraq è situato politicamente e geograficamente in un “corridoio” che unisce forze sciite partendo dal Libano passando per la Siria e arrivando in Iran. In Siria, Bashar al-Assad è sciita alawita e il Daesh era o è formato da mercenari pseudo Wahabiti.

Nel conflitto contro il Daesh, ma che allo stesso tempo per alcune potenze mondiali è stato anche una sporca guerra per spodestare Bashar al-Assad con fini anti iraniani, nell’asse sciita della coalizione sono confluiti gli Hezbollah libanesi e i Pasdaran iraniani e tuttora nell’apparato di sicurezza nazionale iracheno ci sono le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, gli Hashd al-Shaabi, ossia delle milizie multiple che hanno combattuto contro lo Stato Islamico; alcune di esse ricevono sostegno diretto dall’Iran.

Dopo la guerra che ha visto reggere molto bene l’asse sciita (grazie anche alla copertura di Putin e Bashar Al-Assad), sono arrivate le sanzioni americane all’Iran, incluse quelle dirette contro le esportazioni di petrolio e il sistema bancario iraniano, entrate in vigore nel Novembre del 2018 in seguito all’uscita di scena degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015, il Jcpoa.

In questo panorama “spigoloso” e pieno di mani che si vogliono allungare sull’Iraq, il 10 Gennaio sull’agenzia Nova si leggeva che intenzione degli Stati Uniti d’America è quella di costruire quattro nuove basi militari in Iraq dotate di sistemi militari avanzati in diverse aree della provincia occidentale dell’Anbar, territorio strategico perché confinante con la Siria, la Giordania e l’Arabia Saudita. Questa provincia per altro è considerata una roccaforte sunnita del Paese. Di fronte a tanto, è arrivata la quanto meno prevedibile richiesta di una gran parte del Parlamento iracheno affinché il Paese venga lasciato libero dagli eserciti stranieri.

Il 25 Gennaio, la forza politica Sairoon di Muqtada al-Sadr ha presentato una proposta di legge, che se approvata dal Parlamento, imporrebbe a tutto il personale militare straniero di lasciare la Nazione entro un anno dalla ratifica in quanto, di fatto, la guerra all’Isil è conclusa.

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Ministro Trenta a Baghdad

Il 15 Febbraio, la Ministro della Difesa dell’Italia, Trenta, ha risposto affermando che “noi” continueremo a fare la nostra parte sostenendo le forze di sicurezza irachene nella loro quotidiana azione di contrasto al terrorismo. Leggasi tra le righe: ce ne andremo quando gli Usa decideranno di andar via?

Trump invece nel mese di Febbraio ha più volte ribadito di non volersene andare affatto dall’Iraq visti i milioni di dollari spesi per costruire le basi nell’Anbar col solo scopo di sorvegliare diverse zone in Medio Oriente, in special modo l’Iran e la sua minaccia nucleare; e per girare ancora un poco di più il dito nella piaga, Washington ha chiesto al Primo Ministro iracheno Adel Abdul Mahdi di sciogliere le circa 69 fazioni delle Forze di Mobilitazione Popolare, accusate di essere un esercito parallelo.

Chiaramente le dichiarazioni del governo non si sono fatte attendere e si è levata una voce piuttosto diffusa in cui è stato affermato che Baghdad non permetterà a nessun Paese straniero di usare l’Iraq per attaccare l’Iran. L’Iran, viste le sanzioni e gli interessi commerciali che ha nella Nazione, preme sui gruppi politici sciiti affinché la legge anti presenza militare straniera passi in Parlamento.

Con ogni probabilità la pace in Medio Oriente e in Iraq nello specifico non si può fare così, se normalizzare un territorio significa creare le condizioni per una spartizione equa delle risorse e delle opportunità.

I Curdi vogliono la presenza americana a garanzia dello status quo e della loro autonomia regionale; gli Usa finanziano i curdi per aver un ingresso facilitato nel Paese, non vogliono andare via poiché è loro interesse sorvegliare l’Iran anche per conto degli israeliani in funzione anti sciita e ci tengono a tenere ben saldi i piedi in un territorio ricchissimo di petrolio; l’Iran in chiave anti americana influenza alcune forze politiche, anche per difendere gli interessi commerciali e militari che ha nella zona e l’Arabia Saudita controlla che l’asse sciita non si rafforzi, che l’esportazione di petrolio non salga alle stelle e che i progetti dei gasdotti che attraversano Paesi amici fino al Mediterraneo non abbiano buon esito col benestare della Russia.

Questo è dividere non è unire, e allora, spendere tanti soldi per missioni infinite quando il nodo dell’interesse generale è altrove rispetto all’Italia appare quanto meno degno di discussione.

di Ilaria Parpaglioni

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