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In Baviera i “Sette Grandi” rispondono agli ordini del loro “vecchio padrone”

di Salvo Ardizzone

Domenica e lunedì, nel castello di Elmau, in Baviera, s’è tenuto il summit del G7, con Angela Merkel a fare da padrona di casa e Putin (non invitato per il secondo anno consecutivo) nel ruolo di convitato di pietra, al centro delle discussioni più rilevanti.

I temi in agenda erano i più disparati, dalla lotta alla fame ed alle pandemie tipo Ebola, ai problemi del clima, continuando con la minaccia del terrorismo globale ed il problema dei migranti, ma, al di là delle tante parole, gli argomenti che hanno dominato negli incontri erano due: la crisi greca e, soprattutto, quella ucraina con tutto ciò che ne consegue.

Il caso Grecia spaventa i leader del G7 per i possibili contraccolpi su economie che stentano a superare una crisi da cui non riescono a liberarsi, prigioniere come sono di una finanza internazionale rapace e interconnessa e di visioni liberistiche che hanno mostrato più volte la loro inadeguatezza, con ricette che aggravano la recessione, aumentano le diseguaglianze e portano disoccupazione e povertà.

A dire il vero Obama ha provato a criticare l’austerità ad ogni costo imposta da Berlino, ma al dunque ha preferito sfumare le feroci critiche espresse dal Segretario al Tesoro Jack Lew; aveva troppo bisogno del pieno appoggio della Merkel per quello che era il suo vero obiettivo: rinnovare le sanzioni a Mosca, stroncando le timide voci di dissenso che cominciano a farsi sentire in Francia, in Italia e nel mondo imprenditoriale tedesco.

Il Presidente Usa aveva preparato con cura l’operazione: da giorni l’Esercito di Kiev ha moltiplicato gli attacchi e le provocazioni nel Donbass, con uno stillicidio di scontri e di vittime che ha toccato il culmine proprio alla vigilia del G7. Al contempo, i vertici del Pentagono, di concerto con Paesi dell’Est Europa, hanno cominciato a ventilare lo schieramento di missili da crociera in Europa come al tempo dei Pershing in Germania e dei Cruise a Comiso, ed al vertice militare di Stoccarda, tenutosi alla vigilia del G7, s’è tornato a parlare di deterrenza come nel pieno della Guerra Fredda.

Inoltre, già prima di partire Obama aveva detto che occorreva rispondere “all’aggressione russa in Ucraina” e mantenere le sanzioni senza cedimenti, col presidente della Commissione Europea, il polacco Donald Tusk, a fargli subito da eco dichiarando che l’unica revisione possibile delle sanzioni è un loro inasprimento.

In un simile clima, dinanzi a partner balbettanti (alcuni), irrilevanti (altri) o tacitati come la Germania, che ha avuto mano libera nella gestione della crisi greca, è stato semplice rinnovare le sanzioni che scadranno a fine giugno, prorogandole per altri sei mesi.

Obama è stato duro e minaccioso nei confronti di Putin, ma nel suo discorso affiorava tutta la sorpresa e l’incredulità di chi non comprende come il proprio avversario, malgrado la portata dell’aggressione economica di cui è stato ed è oggetto, non solo non accetti di essere umiliato, ma non arretri d’un pollice dalle proprie posizioni.

La risposta di Mosca alle reiterate minacce è stata semplice: “Ci riserviamo di reagire a tutte le iniziative non amichevoli condotte contro di noi dagli Stati Uniti”; una dichiarazione che rivendica la sovranità di una Nazione che non è disposta a farsi calpestare. Per questo Obama, malgrado la durezza degli attacchi verbali e l’inefficacia della durissima guerra economica dichiarata alla Russia, esita ad alzare ancora il livello dello scontro rifornendo massicciamente di armi l’Ucraina come richiesto da Kiev e da numerosi leader dell’Est europeo.

Sia come sia, Washington ha centrato il suo obiettivo: la contrapposizione fra le economie e la Russia permane; la Nato rinnova la sua ragione d’essere contro un “nemico” costruito a bella posta e gli Usa continuano ad avere la scusa per mantenere la sua ingerenza sull’Europa, grazie all’ottusa viltà e alla sudditanza di troppi Stati.

Resta una riflessione sul G7, un club autoreferenziale di cosiddetti “grandi”, condizionato e manovrato da Washington a piacimento; una congrega di Paesi che da oltre vent’anni è ormai fuori dal corso della Storia e che arranca mentre il mondo cambia vorticosamente. Vien da sorridere a vederli affibbiarsi il titolo di “Grandi della Terra”, chiudendo gli occhi su un pianeta da molti anni multipolare in cui crescono realtà sempre più forti che né Washington, né tanto meno gli altri, possono più controllare.

Il loro è un universo sempre più piccolo, in cui un gruppo di Stati s’è rinchiuso agli ordini di un padrone.

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