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Il caos sudanese apre le porte ad una nuova “Primavera”

di Salvo Ardizzone

Il Sudan è stato sin’ora risparmiato dal contagio delle “Primavere” nordafricane, permettendo al gruppo di potere stretto attorno al presidente Omar al-Bashir e al suo partito, il Nacional Congress Party (Npc), di mantenere le leve del comando; tuttavia, da qualche tempo il regime avverte sinistri scricchiolii che, tra maggio e giugno, hanno suscitato una pesante repressione contro i principali soggetti politici dell’opposizione, con la solita scusa di attentato all’ordine costituzionale. L’ondata di arresti ha stroncato l’embrione di riconciliazione che il partito di governo aveva tentato d’instaurare con parte dell’opposizione, al fine di superare le difficoltà in cui versava.

Il Sudan, da quando nel luglio del 2011 il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza, è entrato in una crisi economica micidiale che va rapidamente peggiorando; al Sud sono infatti andati almeno il 75% delle riserve petrolifere, e al-Bashir, privo di quegli introiti, è stato costretto a imporre impopolari misure d’austerità, che hanno suscitato ripetute ondate di proteste represse violentemente. Inoltre, la situazione interna è tutt’altro che stabilizzata, con un Darfur ancora preda d’una guerra civile che, fra alti e bassi, non conosce sosta, e nel Kordofan meridionale, fra scontri tribali, violenze di milizie e bande criminali, la pace è solo una chimera. Infine, la tensione con Juba per le province petrolifere cedute al Sud è sempre viva, e torna a scoppiare a intermittenza.

Da quanto detto, la situazione sudanese replica, in un contesto assai più fragile, il quadro in cui si sono sviluppate le varie “Primavere”: un regime autocratico e corrotto con in più una povertà diffusissima e vasta parte del Paese preda di disordini endemici e guerre. L’avversario politico più temibile è il Sudanese Congress Party (Scp) per la crescente capacità di attrarre trasversalmente i giovani, vera massa di manovra sempre più disponibile a mobilitarsi contro il regime di al-Bashir, in emulazione delle rivolte popolari libiche e egiziane; tuttavia, pur avendo per capo un giurista noto per le sue battaglie per i diritti civili, Ibrahim Abdel Rahman, non sembra ancora in grado di saldare il fronte delle opposizioni e di fare breccia nell’apparato del potere dell’Npc al governo.

Il vero pericolo è invece quello costituito dai gruppi jihadisti, da sempre presenti in gran numero in terra sudanese; sfruttando i disordini, l’instabilità e il diffusissimo disagio sociale, possono infiltrarsi nelle proteste imprimendole una deriva fondamentalista, come già avvenuto ad esempio in Siria e potendo sfruttare un contesto assai più favorevole. Infatti, l’Ncp, il fulcro del potere politico di al-Bashir, già ha mostrato crepe sensibili: in occasione delle proteste che stanno dilagando a seguito della repressione, un nutrito gruppo di esponenti del partito di governo hanno preso le distanze, fondando un altro movimento politico e dandosi le vesti di “riformatori”. È un primo significativo cedimento in una casta che appariva chiusa e compatta, e che potrebbe anticipare l’implosione del regime.

Il punto di forza di al-Bashir rimane l’Esercito, che fin’ora s’è dimostrato totalmente fedele e ha condiviso fino in fondo le selvagge quanto sanguinose politiche di repressione del Governo, sia nel Darfur che altrove; tuttavia, l’affidabilità delle Forze Armate è basata sulla capacità dell’attuale gruppo dirigente di garantire ai militari privilegi, influenza ed elevati standard di vita rispetto alla società sudanese. Se la crisi economica che sta falcidiando le entrate del Governo dovesse rendere impossibile il perpetuarsi di queste condizioni, è più che probabile che almeno i quadri intermedi dell’Esercito voltino le spalle ad al-Bashir in cerca di altri sponsor a cui vendere i propri servizi.

Come si vede, gli ingredienti d’un nuovo disastro ci sono tutti, come pure i soggetti interessati alla destabilizzazione del Paese: Ciad, per il Darfur e il Kordofan; la Francia, per espellere dall’area l’influenza cinese; il Sud Sudan, per pareggiare i conti e mettere definitivamente fine alle mai sopite mire di Khartoum sui campi petroliferi passati al Sud, anche grazie al forte appoggio israeliano, e soprattutto l’onnipresenza jihadista, che fa della destabilizzazione in conto terzi la propria missione.

L’implosione del regime di al-Bashir dinanzi a una rivolta popolare o a un pronunciamento militare, aprirebbe immediatamente la porta al caos che abbiamo già sperimentato in Libia, con la differenza che, con molto meno petrolio in ballo, mancherebbe anche quel minimo d’attenzione della comunità internazionale. In assenza d’una forte leadership (che non c’è, né è all’orizzonte), diverrebbe il Paese di Bengodi per jihadisti, banditi e trafficanti. Ancora uno Stato fallito, ancora un Popolo condannato alla disperazione.

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