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Germania: si ferma la locomotiva? Le contraddizioni di Frau Merkel

di Salvo Ardizzone

Rallenta la locomotiva tedesca? Con uno striminzito +0,4% nel 2013, dopo un +0,7% nel 2012 possiamo dire si; è poco per chi s’atteggia a prima della classe e vuol dettare la lezione agli altri. Intendiamoci: la Germania ha un’economia poderosa dall’alto dei suoi 2.530 mld di € di Pil nel 2013, ma con problemi strutturali che richiederebbero mano salda e visione lucida per interventi forti (e impopolari). Infatti oggi, dopo essere vissuta di rendita sulle riforme di Agenda 2010 volute da Schroeder nel 2003 (che rilanciarono un Paese in affanno, ma che gli costarono la sconfitta elettorale), la Germania ha bisogno di un nuovo progetto complessivo di crescita e di quelle riforme che tanto predica agli altri, pena una brusca decadenza che coinvolgerebbe l’intera Europa, come già accade troppo spesso.

Ma quali sono i nodi da affrontare?

Per primo il surplus commerciale, vale a dire l’eccesso di export sulle importazioni (e i consumi) che nel 2013 ha raggiunto la cifra record di 260 mld di $, staccando di netto anche la Cina, che ha un surplus di 195 mld di $! Quella cifra astronomica, pari al 7,3% del Pil, come abbiamo spiegato in un precedente articolo, in un sistema come l’Eurozona, provoca pesanti squilibri che qualcuno dovrà prima o poi pagare, e che la Germania, attraverso il meccanismo della Bce (Banca Centrale Europea) denominato Target 2, ha già scaricato su tutti i Paesi dell’Euro (e parliamo di circa 520 mld di €!!).

Per modificare questa grave fonte di squilibrio, servirebbe che l’economia tedesca accelerasse sui consumi interni, modificando la struttura industriale e spingendo gli imprenditori a investire in tal senso (mentre al momento gli investimenti privati sono in netto calo). Ma se a parole tutti son d’accordo, nei fatti Berlino da questo orecchio è sorda, assecondando in pieno i pregiudizi della “pancia” dell’elettorato e gli interessi della lobby industriale. Lo testimonia la strenua ricerca di sempre nuovi rapporti (e commesse) coi paesi emergenti (Pechino e Russia in testa); e la sempre minore attenzione ai temi dei diritti umani; il motto di Gerlot Erler (coordinatore per gli affari russi) è: ”capire la posizione dell’altra parte”, come dire: “gli affari sono affari e che c’importa del resto”.

Altro problema grosso, ma collegato al primo, è quello delle banche, anche questo da noi trattato in precedenza: il sistema bancario tedesco è costituito da un canto da colossi (come la Deutsche Bank o la Commerzalbank) caratterizzato da patrimoni insufficienti e leva finanziaria troppo elevata (in parole povere: troppi pochi soldi a garanzia di linee di credito, operazioni in derivati e prestiti troppo ampi); dall’altro da un pulviscolo di banche locali i cui conti sono quanto meno opachi. Sarebbe necessaria una forte azione di ricapitalizzazione e riordino, ma la BuBa (la Bundesbank) da sempre le ha coperte in nome di una gelosa autonomia, secondo il principio che “i panni sporchi si lavano in casa”; peccato che i costi dei “lavaggi” ricadano sugli altri patners europei, per di più sistematicamente bistrattati.

Inoltre, se i colossi bancari muovono una lobby potentissima a cui le orecchie del governo sono assai attente, le banche locali sono espressione diretta della politica locale, quella che porta i voti per intenderci, e figuratevi se a Berlino qualcuno si sogna di toccarle!

Andando avanti, è la decantata produttività teutonica che s’è seduta, ma l’ha fatto al momento sbagliato, quando è stato introdotto il salario minimo di 8,50 € per ora. Intendiamoci! Non è certo la cosa in sé che critichiamo, ma il fatto che, per non scontentar nessuno (e non prendere decisioni scomode), lo si è introdotto uguale in tutti i lander che uguali non sono affatto; così risulta basso in alcuni come la Baviera e troppo alto in quelli orientali dell’ex Ddr. Il risultato è che già diversi gruppi industriali, si stanno attivando per spostare le imprese in Polonia ed altri paesi dell’Est come negli anni a cavallo del 2000.

Infine c’è una notazione di fondo che grava su tutta la società tedesca: la Germania soffre, e non da ora, di una grave crisi demografica; nascono pochi, pochissimi bambini, a ciò a dispetto dei circa 200 mld di € annuali di aiuti alle famiglie. Ciò significa andare incontro a una sempre maggiore scarsità di mano d’opera; un rapporto fra lavoratori e pensionati sempre meno sostenibile e una spesa sanitaria in netta crescita a fronte di una diminuzione dei contributi versati.

Come si vede i problemi sono tanti e alla guida del Paese occorrerebbe uno statista, non un politico attento ad assecondarne il ventre per garantirsi il consenso.

Frau Merkel ne è all’altezza? Saprà convincere il sistema industriale a modificarsi, a fare gli investimenti che deve invece che sedersi sugli allori, seguendo passivamente la comoda strada di sempre? Saprà mettere mano alle banche, spingendo la BuBa a costringerle a ricapitalizzarsi ed a far le pulizie vere nei conti, a prezzi dolorosi ma salutari? Saprà – finalmente! – mettere ordine nell’infinita galassia dei piccoli istituti di credito, feudo della politica di provincia? Saprà stimolare i consumi con riforme vere, visto che è il Paese che ha meno riformato dall’inizio della crisi dell’Euro? Saprà remare contro la “pancia” della sua gente? Non lo crediamo.

In otto anni e passa di potere s’è distinta per cambiar pelle (e posizione) ad ogni tornata elettorale, con l’unico scopo di rimanere in sella: al suo debutto con posizioni liberali, poi, col primo governo di Grande Coalizione, molto pragmatica (ma attentissima a rovesciar sugli alleati i costi politici); riformista (a parole, non nei fatti) nell’alleanza coi liberali, che infatti ne son usciti distrutti; oggi ancora pragmatica con la nuova Grande Coalizione, ma sempre orientata sul filo degli umori del suo Paese.

No, in più di otto anni ha dimostrato di saper navigare bene nella politica con la “p” minuscola, non ha mai mostrato la tempra della statista, e probabilmente non la vuole neppure, perché lo statista prende decisioni spesso scomode e rischia.

Purtroppo chi rischia siamo noi, così il Paese più grande dell’Europa cui, piaccia o no, siamo legati, rischia d’indirizzarsi su un binario morto, e più che una Grosse Koalition avrà una Grosse Stagnation i cui costi potremmo pagare tutti.

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