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Crescenti tensioni sulle acque del Nilo

Il progetto della Diga della Rinascita, che l’Etiopia sta realizzando sul Nilo Azzurro, suscita la forte opposizione dell’Egitto e crea i presupposti di una crisi dalle conseguenze imprevedibili.

Lungo il suo lunghissimo corso, il bacino del Nilo interessa ben 11 Paesi, ma la sua portata media annua non è straordinaria, 84 milioni di metri cubi all’anno a fronte dei 1250 del fiume Congo; il motivo sta nel fatto che da Khartum in poi scorre fra le sabbie del Sahara, praticamente senza affluenti e da Sud, l’acqua che riceve è in pratica quella del solo Nilo Azzurro che arriva dall’Etiopia, perché l’altro, il Nilo Bianco, che nasce dai Grandi Laghi africani, si perde quasi per intero fra le paludi del Sudd, nel Sud Sudan.

Ciò nonostante, quell’acqua è vitale per molti Paesi, primo fra tutti l’Egitto, che tuttavia ha sempre considerato il fiume cosa propria, ignorando le esigenze dei Paesi a monte. Prima di iniziare l’Alta Diga di Assuan, Nasser concluse un accordo sullo sfruttamento delle acque con il Sudan, perché l’enorme lago artificiale si sarebbe inoltrato nel suo territorio; insieme si spartirono l’acqua, con l’Egitto a fare la parte del leone, tenendo fuori l’Etiopia che aveva chiesto di partecipare all’intesa.

Da allora, era il 1959, l’Egitto continuò ad egemonizzare il fiume, ma la geografia, visto che il Nilo scorre da Sud a Nord, ora permette agli Stati a monte di prendersi la rivincita. L’avvento di un’ambiziosa classe dirigente ad Addis Abeba ha rotto gli equilibri: l’Etiopia, che da anni vanta la più forte e costante crescita dell’Africa, intende fare del proprio enorme potenziale idroelettrico (calcolato in 45mila Mw di cui solo 2mila sfruttati) il volano del proprio sviluppo.

Sono seguite lunghe trattative in più sedi, fra i Paesi del bacino a Nord, capitanati dall’Etiopia, ed Egitto e Sudan, intenzionati a garantire lo status quo che li privilegiava; ma la rivolta che ha defenestrato Mubarak ha offerto ad Addis Abeba un’opportunità irripetibile: comprendendo che l’instabilità avrebbe assorbito forza e attenzione della classe politica egiziana, l’Etiopia ha inaugurato i lavori della Grande Diga della Rinascita, destinata a divenire la più grande del continente africano.

L’opera, appaltata alla Salini-Impregilo per quasi 5 Mld di dollari, sorge a 15 Km dal confine sudanese: è un colosso alto 170 metri, largo 2 Km, destinato a contenere dai 63 ai 74 Mld di metri cubi d’acqua, che una volta operativo dovrebbe produrre 5.250 Mw, più del fabbisogno nazionale etiopico e pari a due volte e mezza la produttività della diga di Assuan.

E qui cominciano i dolori: il riempimento di una simile diga comporterà una sostanziale diminuzione della portata del Nilo per molto tempo, se a questo s’aggiunge che a monte sono in progetto altre quattro dighe fino al Lago Tana, i timori, soprattutto egiziani, sono reali. Ma c’è di più: secondo diversi esperti, la diga è manifestamente sovradimensionata rispetto alla possibile produzione di energia, per cui, in realtà, essa è destinata a raccogliere l’acqua del fiume, facendo dell’Etiopia la padrona del bacino a valle in un mondo in cui l’acqua ha cessato di essere un bene comune per divenire una preziosa materia prima come il petrolio.

La preoccupazione della classe dirigente egiziana è che la strategia di Addis Abeba potrebbe portare al collasso dell’agricoltura egiziana, già in profonda crisi per decenni di politiche fallimentari e scarsità d’investimenti. Il comparto produce circa il 15% del Pil egiziano, ma dà lavoro a un quarto della crescente popolazione; una diminuzione dell’acqua per l’irrigazione, non solo sarebbe un forte danno per l’economia, ma comporterebbe l’abbandono delle campagne da parte di milioni di contadini che andrebbero ad ingrossare il sottoproletariato delle grandi città, divenendo preda sicura di qualunque estremismo.

In realtà l’Egitto già adesso è un Paese che soffre di un’acuta scarsità di risorse idriche per la pessima gestione delle acque; non può più rimandare riforme e investimenti (come stabilimenti di desalinizzazione) che l’inefficienza e la corruzione strutturale dei Governi hanno tralasciato per decenni. La situazione è tale che il Paese dovrà importare sempre più massicci quantitativi di derrate alimentari, per farlo avrà bisogno di sempre maggiori quantitativi di valuta estera che, con il turismo ormai alle corde per il fattore sicurezza, possono essere forniti solo dalle petromonarchie del Golfo.

Certo, ci sono i giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo, ma per tradurli in dollari ci vorrà tempo, quello che Al-Sisi rischia di non avere, minacciato dalla ribellione di una popolazione sempre più disperata.

di Salvo Ardizzone

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