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Con la vittoria di Netanyahu Israele conferma la via aggressiva dell’occupazione

di Cristina Amoroso

Il Likud, partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha ottenuto la vittoria nelle elezioni generali di ieri. Con quasi tutti i voti contati, il Likud si è ormai assicurato 29 dei 120 seggi del parlamento che potrebbero salire a 30 con la conta dei voti dei soldati, ed è adesso in grado di formare un governo omogeneo di destra con il sostegno di partiti nazionalisti e confessionali.

La vittoria del Likud ha colto di sorpresa gli israeliani perché non prevista né dai sondaggi di opinione delle ultime settimane, né dagli exit-poll della scorsa notte. Hanno conquistato 24 seggi i rivali di sinistra di Campo Sionista (Isaac Herzog e Tzipi Livni), che, autocriticandosi hanno affermato che forse è stato un errore trasformare la campagna elettorale in una sorta di referendum sulla figura di Netanyahu. Significativo il successo della Lista araba unita che ha ottenuto una cifra record di 14 seggi, restando comunque relegata all’opposizione.

Domani il presidente Reuven Rivlin riceverà i dati definitivi dell’elezione e non avrà altra scelta che affidare a Bibi l’incarico di formare il nuovo governo. Netanyahu potrebbe includervi Moshe Kahlon, il leader del partito Kulanu che si batte per l’emancipazione delle masse popolari e ha ottenuto 10 seggi. Col suo sostegno il premier potrebbe formare una coalizione di deputati tale da potere affrontare la nuova legislatura con pieno controllo del parlamento.

Se Bibi riuscirà a formare la nuova coalizione di governo, gli Usa saranno costretti a ricostruire il rapporto, cui non ha certo contribuito il discorso di Bibi al Congresso il 3 marzo scorso, organizzato con i parlamentari repubblicani senza neppure informare la Casa Bianca. Sarà difficile, però, perché i due governi hanno posizioni opposte su due aspetti fondamentali della politica americana, cioè il tentativo di fare un accordo con l’Iran sul programma nucleare, e la creazione dello Stato palestinese.

Quanto allo Stato palestinese, “non nascerà nessuno Stato palestinese, se il premier continuerà ad essere Benjamin Netanyahu”. A dichiararlo è stato lui stesso in un’intervista al sito israeliano, Nrg, rilasciata domenica 15 marzo, dove aveva aggiunto che il Paese si trova ad affrontare una serie di pressioni internazionali che chiedono “il ritorno di Israele ai confini del ’67 e la divisione” della capitale. Alla vigilia delle elezioni Netanyahu, durante una visita presso la colonia ebraica di Har Homa nei pressi di Gerusalemme Est, aveva aggiunto che l’unità della città sarebbe stata mantenuta “in tutte le sue parti”, così come si sarebbe continuato “a costruirla e fortificarla” per impedire ogni sua futura divisione.

Facendo riferimento alle dichiarazioni di Netanyahu in campagna elettorale, durezza e preoccupazione hanno improntato i commenti dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sulla vittoria di Netanyahu, in quanto si è “scelta la via dell’occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e della collaborazione”, ha dichiarato Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell’Olp.

Dal canto suo l’Iran afferma che non si aspetta alcun cambiamento nella politica di Israele a seguito delle recenti elezioni generali, dal momento che tutti i partiti del regime seguono lo stesso approccio aggressivo. Parlando alla sua conferenza stampa settimanale di mercoledì, il portavoce del ministero degli Esteri, Marzieh Afkham, ha dichiarato che: “I partiti israeliani hanno tutti una natura aggressiva. I partiti israeliani sono gli stessi e sono tutti complici dei loro crimini contro i palestinesi e dei loro atti di aggressione”.

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