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Colombia, un Paese alla ricerca di una vera pace

di Salvo Ardizzone

Nel giugno scorso in Colombia ci sono state le elezioni presidenziali, dopo che a marzo c’erano state quelle politiche, che avevano dato il controllo del Congresso a Juan Manuel Santos. Ha vinto lui, il Presidente in carica, ma è stata una vittoria risicata frutto di un si alla pacificazione espresso da una maggioranza trasversale.

Santos al primo turno aveva avuto solo il 25,58% dei voti, contro il 29,25% dello sfidante Oscar Ivan Zuluaga, sostenuto dall’ex Presidente Uribe. È stato al ballottaggio che s’è decisa la partita fra chi ha scommesso sulla pace (da troppo tempo assente da qual Paese) e chi aveva costruito le proprie fortune su una contrapposizione frontale (diretta dall’esterno) con Farc ed Eln; è finita col 51% per Juan Manuel Santos e con la sconfitta del Centro Democratico di Uribe.

Santos è tutt’altro che una ventata d’aria nuova per la Colombia: ha 63 anni, appartiene ad una delle più ricche e potenti famiglie di Bogotà e, prima di dedicarsi alla politica, nel ’91, s’è occupato delle vaste produzioni di caffè e del quotidiano di famiglia El Tiempo.

Quello che ha fatto la differenza fra lui e Zuluaga (ma nella sostanza era Uribe che tirava le fila), è stata la stanchezza dei colombiani per l’eterna guerra con le Farc; una guerra costata almeno 220mila morti, ma che oltre a questo tributo di sangue ha portato instabilità, insicurezza e altri lutti, recati da gruppi come l’Eln, le milizie e i numerosi cartelli della droga, abili tutti ad inserirsi in una crisi endemica che dissangua il Paese.

Santos la vuole una pace, cosciente che senza di essa la Colombia non potrà tentare di sollevarsi, e, a prescindere dai contenuti, ha provato a scommettere su di essa. Ora, con le Farc sulla difensiva per i molti colpi che hanno ricevuto, i colloqui iniziati a Cuba hanno qualche probabilità di successo, e i colombiani, al motto “no quiero ser Santista, pero me toca”, come diceva Montanelli “turandosi il naso”, ci hanno scommesso.

La vera sfida di Santos sarà governare appoggiandosi su una coalizione che più eterogenea non potrebbe essere, proveniente dal voto d’opinione pacifista, clientelare grazie alle potenti relazioni della famiglia, dalla sinistra in chiave anti Uribe e dall’appoggio della grande impresa che vuole stabilità per fare affari; si direbbe una missione impossibile. D’altro canto, sul Centro Democratico di Uribe, assertore di una politica muscolare contro le Farc, e grande amico di Washington, s’addensano nubi nere, visto che molti dei suoi uomini di spicco potrebbero trovare troppo scomoda la posizione di oppositori e preferire correre sul carro del vincitore.

Nella realtà la Colombia è un Paese martoriato da molto, troppo tempo: movimenti rivoluzionari che hanno dimenticato le ragioni di una ribellione, gruppi paramilitari, bande di “narcos” che con il loro fiume di denaro coinvolgono tutto e tutti e l’Esercito (appoggiato da numerosi programmi di “assistenza” Usa) da decenni esercitano una violenza che ne ha fatto uno dei territori più insicuri al Mondo. Pur essendo ricco di materie prime, la gran parte della popolazione resta sotto la soglia della povertà, soprattutto nelle vaste zone rurali, troppo spesso ostaggio di banditi, “narcos” e paramilitari.

Uscire da questo circolo infernale, affrancarsi dal dominio di poteri che dall’esterno dettano legge, è stata la molla trasversale che ha determinato l’elezione di Santos. E lui s’è affrettato ad affermare che sarebbe stato il Presidente di tutti, che si sarebbe speso per sanare le ferite di troppe uccisioni e troppi abusi.

Visti i precedenti (appartiene a una famiglia che ha costruito e mantiene una fortuna sui privilegi, e in altri tempi è stato Ministro della Difesa di Uribe) non è che ci sia molto da sperare, ma al momento è l’unica speranza di quella Nazione disgraziata.

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