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Caucaso: groviglio di gasdotti e di potere

di Salvo Ardizzone

Del Caucaso in Occidente si sa assai poco, ma conta assai nei giochi di potere che toccano tutti, e anche noi in Europa. In quella zona che ci pare remota, si scontrano un’incredibile quantità d’interessi che è già difficile elencare: vediamo di capircene qualcosa.

La regione, divisa fra una miriade di popoli ed etnie assai diverse; apparteneva all’Urss prima che il suo collasso la separasse in due aree: quella a nord, dominata dalla Russia, e quella a sud, ora divisa fra tre stati: la Georgia sul Mar Nero, l’Armenia al centro e l’Azerbaigian sul Caspio. È uno snodo essenziale e strategico fra Europa e Asia per la Russia di Putin, che vuole riaffermare il suo dominio indiscusso sulla zona e sulle risorse energetiche (petrolio e gas) del bacino del Caspio, in mano ora all’Azerbaigian e agli stati dell’Asia Centrale (Turkmenistan in testa). Inoltre vuole contrastare quel separatismo di stampo islamico, che per contagio può mandare in pezzi le repubbliche della stessa Russia mussulmana, suscitando conflitti sanguinosi (ieri Cecenia, oggi Daghestan, domani Baschiria e così via).

Poi ci sono gli interessi Usa che all’indomani dell’implosione dell’Urss si sono infiltrati nella regione per il controllo dell’area e dell’energia del Centro Asia, ma, dopo lo scontro duro del 2008, quando Bush, nella sua incoscienza, ha sfiorato la 3^ guerra mondiale in Georgia, si sono assai sopiti.

Scemato l’interesse degli Usa, è subentrata la Ue e la cruciale partita dei gasdotti; per comprendere basta ricordare che l’Europa ha una gran fame di energia: nel 2013 ha consumato 485 Gmc di gas importandone 300 che, secondo l’Iea, arriveranno a 415 nel 2035. Il fornitore maggiore è Gazprom di Putin, ben felice di questa pericolosa dipendenza e pronto a incrementarla sempre più. Occorre infatti pensare che, mentre il petrolio si muove essenzialmente con le petroliere, nell’ambito di un mercato globale che alla bisogna è facile spostare da una parte all’altra del mondo, il gas, per una questione di costi, si sposta quasi tutto con i gasdotti. Sono investimenti massicci, non facili da realizzare, e che legano non poco chi sta da una parte e dall’altra del tubo: il fornitore al mercato fornito e il cliente al suo fornitore, che può regolare a piacimento il flusso e il suo costo in mancanza di alternative.

È una dipendenza pericolosa che può divenire soffocante, e l’Ue ha inteso differenziare le sue fonti aprendo un altro canale d’approvvigionamento con il gas proveniente dal bacino del Caspio: il Southern Gas Corridor, che si sarebbe affiancato al North Stream (che porta il gas russo ai paesi del Nord Europa) e il South Stream (che, attraverso l’Ucraina, lo porta all’Europa Centrale e ai Balcani); l’ultimo gasdotto in funzione è quello dal Nord Africa, anch’esso a rischio per problemi di stabilità politica. È stata ed è una decisione cruciale, anche perché i Paesi Occidentali hanno già assaggiato i rischi di una tale dipendenza, con le riduzioni di flusso e le sospensioni di erogazione a causa delle ricorrenti crisi in Ucraina.

Dei quattro progetti iniziali, ne erano rimasti in lizza due: il Trans Adriatic Pipeline (Tap) e il Nabucco West, con quest’ultimo a sembrare il preferito: era il più grande, capace di far giungere la ragguardevole quantità di 31 Gmc fino a Vienna e su ancora nella Repubblica Ceca, rifornendo Balcani ed Europa Centrale (la stessa coperta dal South Stream), costituendo la logica soluzione alternativa in caso di guai.

Tuttavia, una quantità così grande non poteva provenire solo dal pur notevole campo Shah Deniz II dell’Azerbaigian, capace di fornirne solo un terzo; occorreva che si unisse al gas del Tagikistan, portato dall’altra parte del Caspio, e a quello iraniano. E qui son cominciati i problemi: Putin ha fatto capire all’Azerbaigian che non avrebbe tollerato una simile sfida agli interessi di Mosca, e la brutale lezione inferta alla Georgia era troppo fresca perché Baku prendesse la cosa sottogamba; così, accampando vari pretesti, ha negato al gas tagiko di arrivare. Dall’altra parte gli Usa, preoccupati solo di sbarrar la strada ad ogni tentativo iraniano di sviluppo, hanno posto il veto, infischiandosene degli interessi della Ue; restava solo il gas azero: troppo poco per un tubo troppo grande. Così alla fine l’ha spuntata il Tap, che porta 10 Gmc (una quantità che certo non impensierisce Gazprom) in Italia, un’area non interessata da South Stream.

Vittoria su tutta la linea per Putin, e per l’Azerbaigian che s’è assicurato un ottimo mercato, a misura delle proprie potenzialità. D’accordo che il Tap può esser raddoppiato, ma quel gas (pur sempre limitato) andrebbe al nord, senza interferire con South Stream, cioè l’esatto contrario delle motivazioni iniziali della Ue.

Ma torniamo agli altri interessi che si scontrano nel Caucaso: son tanti, e li tratteremo sommariamente, cominciando dalla Turchia, che è naturale alleata dell’Azerbaigian, per affinità di etnia e di lingua, e storica nemica dell’Armenia con cui pende ancora la vicenda del genocidio d’un secolo fa: può sembrare assurdo, ma quella pagina pur orribile continua a influenzare le sorti dei popoli ancora adesso, condizionando irrimediabilmente decisioni e scelte (ma in fondo sbagliamo a stupirci, in Medio Oriente ci sono altri esempi anche più eclatanti). Quelle scelte di campo pregiudiziali, ne limitano enormemente i movimenti; il suo ruolo essenziale resta il far da ponte per il passaggio delle risorse altrui, ed è già tanto.

C’è poi l’Iran, che vede la regione come parte della propria antica area culturale, e come piattaforma per contenere l’eccessiva attività russa; ma è ancora troppo frenato dalle sanzioni: solo dopo la loro conclusione, e con la ripresa dell’economia, la sua azione potrà divenire realmente incisiva nella zona, e badate! Lo potrebbe davvero!

Infine c’è il gioco delle potenze regionali, Azerbaigian in testa; di lui abbiamo già detto per il successo che ha avuto con il Tap e per il notevole sviluppo economico dovuto soprattutto a gas e petrolio (ma non solo). Il fatto è che è ancora aperta la faccenda del Nagorno–Karabakh, la provincia azera di fatto annessa dall’Armenia, dopo la guerra del 1994, con l’appoggio della Russia. È una piaga che avvelena la zona, condizionando le scelte e i movimenti di chiunque si muova su quello scenario. L’Armenia, da parte sua, s’è legata alla Russia per ovvi interessi (dipende da lei per tutto, economia in testa) prima che per affinità religiose o culturali, e la Russia, con la scusa di tutelarne la sicurezza, la usa come base militare (al momento vi sono almeno 18.000 militari russi). Della Georgia c’è poco da dire: dopo la lezione del 2008 ed aver praticamente perso il 20% del territorio nazionale (Abkazia e Ossezia del Sud) occupato dai Russi, bada a tenere un profilo basso.

Gli altri attori dell’area del Caspio: Tagikistan, Uzbekistan e Kazakistan, stanchi di attendere gli sbocchi oltre il Caucaso, per ora hanno indirizzato le proprie risorse verso la Russia o verso Oriente, in Cina.

Un’ultima notazione è assai importante: come abbiamo accennato, tutta l’area (che è in gran parte mussulmana) è pervasa da rigurgiti separatisti di fondamentalismo salafita, sobillati e finanziati dall’Arabia Saudita; la Cecenia è un esempio anche troppo noto, ma il Daghestan si prepara ad esplodere e il contagio potrebbe passar presto in Baschiria e nelle altre repubbliche mussulmane della Russia con effetti devastanti, che diverrebbero inimmaginabili se il terrorismo arrivasse stabilmente nella vicina regione del Volga, cuore e snodo essenziale di tutta la politica energetica russa.

Senza questo aspetto, non è possibile comprendere a fondo il pregiudizio anti mussulmano (ed anti caucasico) che è fortissimo sia nell’opinione pubblica che nella classe dirigente russa, condizionandone pesantemente le scelte.

Come s’è visto è una partita complicatissima, giocata col più assoluto cinismo e spregiudicatezza, badando solo al profitto di bottega; a scendere in particolari potremmo parlare di colossali corruzioni, massacri efferati quanto ottusi, prove di forza giocate sulla pelle di nazioni semidistrutte, scempi ambientali compiuti senza batter ciglio, etc, insomma, c’è tutto il campionario di questa nostra cosiddetta “civiltà” che continua a giocare sulla testa dei popoli.

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