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Caso Regeni: arriva la delegazione egiziana, ma non la verità

di Salvo Ardizzone

Giovedì mattina, una delegazione d’inquirenti e investigatori egiziani formata da due magistrati e tre alti ufficiali della polizia, ha consegnato un dossier di circa 2mila pagine contenenti, immagini, video, tabulati telefonici, referti e verbali relativi al caso Regeni, sarebbe il materiale probatorio che l’Italia ha chiesto inutilmente da tempo.

Il condizionale è d’obbligo dopo mesi di depistaggi, rifiuti e veleni e dopo che, da indiscrezioni, pare che la documentazione sia largamente incompleta per quanto attiene a elementi giudicati essenziali dagli investigatori italiani. Ma che qualcosa si muova sembra evidente dopo che anche sulla stampa egiziana, controllatissima dal regime di Al-Sisi, affiorano le prime voci apertamente critiche sulla gestione del caso e sull’operato dei servizi di sicurezza.

Venerdì gli inquirenti italiani torneranno ad incontrarsi con la delegazione egiziana, ma servirà tempo per esaminare la validità del materiale fornito, anche in considerazione del fatto che dovrà essere tradotto, e per appurare la sua reale consistenza.

Fin qui i fatti che dicono come, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sia ancora assai lunga la strada per fare chiarezza sull’assassinio di Regeni, semmai si riuscirà a farlo. Fin d’ora, però, si possono fare alcune considerazioni: per come si è svolta, la vicenda del ricercatore italiano non può essere il tragico epilogo di un ennesimo abuso delle forze di sicurezza egiziane; non si sequestra un cittadino straniero, lo si tortura per giorni, lo si uccide e se ne conserva il cadavere per farlo ritrovare giusto il giorno della visita di un’importante delegazione del suo Paese. Questo è un “messaggio”.

Fosse stato un semplice “ospite” sgradito sarebbe stato espulso, magari dopo qualche notte di cella, magari dopo qualche brutalità per intimidirlo. Piaccia o no, con tutta probabilità Regeni è rimasto stritolato da un gioco assai più grande di lui; un gioco a cui s’era prestato, magari in buona fede, magari inconsapevolmente, e che lo ha perduto. Di qui le torture durate per giorni per fargli dire ciò che non poteva confessare perché non sapeva; di qui il “messaggio” del suo cadavere martoriato a chi avrebbe saputo intendere.

Un gioco che ha finito per spiazzare le stesse autorità egiziane, con un grottesco balletto fatto di smentite, depistaggi, contraddizioni fra le varie procure che si sono rimpallate il caso e all’interno dello stesso Palazzo. Dopo le dichiarazioni di Gentiloni alla Camera martedì scorso, chi è attento alle dinamiche del potere egiziano è rimasto sorpreso non tanto dall’immediata reazione negativa del Ministero degli Esteri del Cairo, quanto dalla pronta rettifica del presidente Al-Sisi. Rettifica, anzi, nuova piena offerta di collaborazione all’Italia, che la stampa governativa ha sottolineato essere stata fatta in presenza del Ministro degli Esteri che l’aveva messa in dubbio poche ore prima.

L’”affaire”, perché di questo si tratta, nasconde interessi enormi che probabilmente non conosceremo mai, e fa affiorare le lotte intestine fra spezzoni di quel potere corrotto quanto violento che si è installato in Egitto. Adesso, è interesse di tutti “accomodare” un caso divenuto troppo grosso per essere ignorato.

Dopo i grossolani depistaggi, le fantasiose (e offensive) ipotesi sulle cause della morte, addirittura l’esecuzione di una banda di manovalanza criminale del Potere a cui attribuire l’assassinio, adesso è chiaro a tutti che per chiudere il caso occorre sacrificare qualcuno più in alto. Di qui i continui veleni, gli inquinamenti che continuano ad uscire sulla vicenda, da ultima un’anonima ricostruzione ritenuta dagli inquirenti italiani l’ennesimo depistaggio.

Nella realtà, il capro espiatorio perfetto sembra essere già stato trovato: quel generale Khaled Shalabi, già condannato per una vicenda simile nel 2003, ormai additato come responsabile dalla stessa stampa egiziana. Lo stesso che ha dato il via ai depistaggi, negando l’evidenza sulla fine di Regeni. Lo stesso, pare, all’origine del rinvio dell’arrivo della delegazione degli inquirenti egiziani di cui avrebbe dovuto far parte, a causa del suo rifiuto di recarsi in Italia a cui aveva paura d’essere consegnato.

L’Italia ha con l’Egitto interessi enormi: il colossale giacimento di gas scoperto dall’Eni, la collaborazione nello spinoso problema libico e molti altri dossier commerciali, hanno fatto di Al-Sisi un interlocutore “privilegiato” di Renzi, mettendo in secondo piano il fatto che sia uno spietato dittatore. Per questo e molto altro è assai improbabile che la verità possa emergere, al di là di una versione di circostanza.

Che questo possa essere accettato da un Paese normale è altro discorso; ma si sa, l’Italia un Paese normale non lo è mai stato.

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