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Apocalisse a Damasco

Domani, quando sarà già il tempo ultimo — culmine di tutti i giorni, vigilia del Dì del Giudizio — a Damasco tornerà Gesù. Apparirà nella terra dove tutto è guerra, proprio quando tutto sarà solo guerra, scenderà nel minareto bianco della Moschea degli Ommaydi, che per questo porta il suo nome; e dalla Siria, il Cristo, muoverà a cavallo verso Gerusalemme, dove sconfiggerà l’Anticristo. Così sarà secondo il vaticinio attestato dalla tradizione islamica, ed è il segreto intimo e remoto di tutti i musulmani che attendono il ritorno del figlio di Maria, Spirito di Allah,«eminente in questo mondo e nell’Altro» secondo il Corano.

Nella città della Cupola della Roccia, dunque, da dove Maometto si alzò in volo per conoscere la promessa dei cieli e lo spavento dell’inferno, memoria di quel viaggio fatto in groppa al Buraq (la prima non occulta fonte della Divina Commedia di Dante), Cristo — secondo la tradizione sciita — incontrerà il Mahdi, ovvero “il ben Guidato”, e con lui metterà pace sulla terra. Per i sunniti, invece (la maggioranza della comunità islamica), Cristo e il Mahdi sono la stessa persona. Per sunniti e sciiti, comunque, l’interpretazione sulla battaglia finale coincide. Gesù sconfiggerà il nemico, per quaranta anni governerà su tutta la terra e poi morirà.

Gesù, dunque, che nei secoli della storia, asceso al cielo, non è mai morto (neppure sul Golgota, quando Allah seminò la confusione presso i suoi carnefici dando loro l’illusione di crocifiggerlo), dopo il suo regno avrà morte carnale e verrà sepolto a Medina accanto a Maometto per risorgere insieme a lui nel giorno del Giudizio Universale. Damasco non è dunque un dettaglio: il minareto di Gesù si trova appunto nella moschea siriana dove Giovanni Paolo II, il 6 maggio del 2001, si recò a pregare trascinando tutto il peso della sua sofferta vecchiaia innanzi alla tomba di Giovanni, il Battista, lì seppellito. E l’intera Siria non è un elemento secondario nella teologia islamica. Per l’islam, infatti, oltre che il punto chiave del capitolo finale — ampiamente citata nelle fonti dei sapienti e degli esegeti tra i “segni” — è anche luogo d’avvio della Rivelazione.

La Siria, nel sentimento musulmano, è Bosra, la città dove aveva eremo Bahira, il monaco cristiano che, per primo nella storia, riconobbe il Sigillo della Profezia in Maometto ancora bambino. Dal suo monastero, Bahira vide le palme piegarsi per fare ombra su un caravanserraglio, poi vide muoversi una nuvola — in una giornata di caldo irreparabile — che sembrava volesse riparare dal sole qualcuno. Allora il monaco interrogò gli uomini della carovana e scoprì con loro un orfano nelle cui carni era impresso il segno della volontà di Allah. «Proteggetelo», raccomandò Bahira ai mercanti in viaggio lungo quella rotta, «affinché non venga perseguitato come Gesù». Bahira, nella cristianità, venerato dagli ortodossi slavi, è riconosciuto santo col nome di Sergio e risulta di fatto dimenticato in Occidente (è un santo letteralmente cancellato dal novero, forse l’unico caso) per lo scandalo di aver stabilito già nel VI secolo islam e cristianesimo “come raggi della stessa luce”.

La geografia coincide con la viva vena di una storia antica resa attuale nelle cronache di queste ore. Lo stretto legame delle due religioni si ravviva quando, nella poetica visione degli sciiti, perfino le quattro braccia della Croce sono “parusia”, l’evento di ciò che è. Secondo Abu Ya Qub Sejestani, sapiente persiano del IV secolo, nell’intersecarsi del Legno e nelle quattro parole d’attestazione della fede islamica (il Tawhid), c’è il simbolo del medesimo segreto: la parusia, l’appalesarsi del divino che avverrà al termine della “notte dell’umanità”. E la croce del Golgota arriva proprio dalla Siria. È quasi come un prologo in cronaca rispetto a ciò che preparano i cieli, che sembra addensarsi nel sentimento del mondo islamico; e non c’è credente nell’islam, oggi, che non abbia fatto — quasi a svelare un retroscena teologico nella tragedia siriana in corso — un pensiero sulla descrizione dei tempi ultimi.

L’avversario del Mahdi, l’Anticristo — il cui nome in arabo è Dajial — avrà la caratteristica di proclamare nel nome dell’umanitarismo i sentimenti di giustizia, di pace e l’uguaglianza di tutte le religioni allo scopo di salvare i popoli. L’Anticristo, secondo la religione islamica, sarà convincente, benevolo ed etico. Sarà forte di tutte le virtù civili e l’intero mondo guarderà a lui affascinato. Si presenterà al cospetto del mondo come musulmano, ma il Dajial, l’Avversario, seminerà la confusione nella comunità dei credenti accendendo la “fitna”, ovvero “la separatezza”, la guerra fratricida. La Siria, denominata nell’esegesi coranica Sham (una regione che comprendeva anche il Libano, la Palestina e la Giordania), secondo il raccon-to delle raccolte sciite sarà teatro di un’altra figura demoniaca denominata Sufyani, un discendente di Abu Safyan, nemico di Maometto; e nel Libro dell’occultazione di An-Numani i capitoli sul tema del “tempo ultimo” sono espliciti.

L’imam Alì disse: «Ci sarà un terremoto nello Sham dove più di centomila persone moriranno. Quando ciò avverrà vedrai i cavalieri dei cavalli grigi con bandiere gialle provenire dall’occidente e si fermeranno nello Sham. Ci sarà grande terrore e morte rossa. Poi vedrai sprofondare un villaggio presso Damasco chiamato Harasta. I mangiatori di fegati siederanno sul pulpito di Damasco. Allora tornerà il Mahdi». Quella dei “mangiatori di fegati” è una pratica purtroppo vista anche di recente, nei filmati diffusi dai “ribelli”, e i riferimenti simbolici rispetto agli eventi in corso in Siria confermano nell’opinione dei musulmani l’approssimarsi della “notte dell’umanità”. Anche in tempi a noi più vicini, con il filosofo musulmano francese René Guénon, la regione dello Sham, ritorna tra le mappe sapienzali come “punto sensibile” di controiniziazione del mondo, precisamente una delle “Sette torri del Diavolo”.

È un capitolo della cultura tradizionale questo delle Sette torri, ed è quasi una sorta di cartografia della geopolitica dove salta agli occhi un fatto: l’ubicazione dei luoghi, dall’Iraq alla Siria, per non dire del Sudan e della Nigeria, corrisponde ai teatri dei conflitti nell’epoca a noi attuale. La successione dei cieli, le età vivificanti secondo la Rivelazione coranica, riscatta il tempo. È la nostalgia di un’età il cui albore è armonia. Tutta la storia a noi contemporanea, dal punto di vista islamico, ha in controluce la profanazione dei luoghi sacri. Così dalla Guerra del Golfo, dove i cingolati americani calpestarono la sacrissima penisola arabica, fino alle Primavere Arabe consumate lungo il percorso che dalla Libia (sede del Tempio di Ammone), oltre l’Egitto e poi ancora una volta in Siria, ripercorrono — fino a Elia Capitolina (ossia Gerusalemme) — il pellegrinaggio di guerra e vittoria di Iskander (è il Bicorne che fondò Iskandria, di cui si legge nel sacro Corano e da più fonti identificato in Alessandro il Macedone), che ha lasciato in eredità alla scienza tutta militare dell’impero: «Chi vuole la Persia deve passare dalla Siria».

Per i musulmani, la cui prospettiva storica è ovviamente metafisica, lo scontro di civiltà dell’Occidente (a partire dalla passeggiata di Sharon alla spianata delle moschee di Gerusalemme) diventa angoscia da “fitna”, la guerra fratricida all’interno della comunità dei credenti. Ed è ciò che nella forma più spaventosa sta accadendo in Siria, una dura prova che oggi porta l’intero universo islamico all’estremo appuntamento col Millenarismo. E col realismo della strategia politica. Un preludio e un postludio di un’eternità ritardata. C’è un patto di cavalleria mistica che rende il Mahdi e Gesù responsabili l’uno dell’altro. Ma c’è pur sempre un prologo in cronaca, visionabile su Youtube, rispetto a ciò che attendono i cieli. Domani, quando sarà il tempo ultimo.

di Pietrangelo Buttafuoco – Repubblica 16/10/2013

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