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Ad Ankara le bombe dello “Stato profondo” fanno a pezzi ogni possibile dialogo con i curdi

di Salvo Ardizzone

Sabato, alle dieci del mattino, nella piazza della stazione di Ankara s’è consumato il peggiore attentato della storia della Turchia moderna; una mattanza i cui numeri non sono ancora del tutto chiari, ma si parla di almeno un centinaio di morti e di centinaia di feriti, secondo fonti ospedaliere addirittura 400, molti dei quali in condizioni critiche.

Alle 12 sarebbe dovuto partire un corteo indetto dall’Hdp (il partito di sinistra d’ispirazione curda) e da molte sigle sindacali e della società civile; era una protesta pacifica per la sanguinosa offensiva lanciata da Erdogan contro il Pkk, un’offensiva che ha infranto la tregua che era in corso e distrutto il processo di pace avviato.

Mentre i manifestanti si radunavano fra canti e slogan, due esplosioni, si dice provocate da kamikaze, hanno seminato la piazza di morti. È la terza maglia di una catena di attentati contro curdi moderati e pacifisti iniziata a giugno a Djarbakir, ad un comizio dell’Hdp, continuata a luglio con i 36 morti di Suruc, al corteo di pacifisti che volevano marciare su Kobane ed ora giunta al mattatoio della stazione di Ankara.

Su tutti questi morti c’è la firma dello “Stato profondo”, quel groviglio di Servizi, ambienti nazionalisti e forze oscure che colpisce sistematicamente ogni volta che il Paese si trova ad un passaggio essenziale.

Le bombe di Ankara vogliono fare a pezzi ogni possibile dialogo con i curdi, provocando la risposta violenta del Pkk e giustificando la bestiale repressione del Governo; vogliono spezzare la società turca additando come traditori della Nazione minacciata quanti non si schierano con il Governo.

Dopo la strage di Suruc, il Pkk reagì dando ad Erdogan l’occasione di dare il via ai bombardamenti e alle retate in nome della salvezza nazionale; adesso il movimento curdo non è caduto nella trappola ed ha respinto la provocazione proclamando una tregua unilaterale fino alle elezioni del 1° novembre, malgrado il Governo abbia già dichiarato che non intende sospendere le operazioni contro le formazioni curde.

Si tratta di elezioni in cui Erdogan si gioca il tutto per tutto, da lui volute fortissimamente dopo la netta sconfitta subita in quelle di giugno. In questa ottica ha ricacciato il Paese in una guerra contro i curdi, distruggendo un processo di pace da lui stesso avviato: è un tentativo di ricompattare la popolazione contro un “nemico” pestando sul tasto del nazionalismo. Se dovesse perdere ancora per lui sarebbe finita.

Dopo la strage i partiti dell’opposizione hanno interrotto le attività elettorali e sono già in molti a puntare il dito sul Governo; d’altronde, che ci siano pesantissime responsabilità sull’accaduto sembra evidente, basta notare che nella piazza dove si stavano concentrando i dimostranti di una massiccia manifestazione, contrariamente a tutti i precedenti, la polizia era praticamente assente.

Sia come sia, con Erdogan la Turchia è divenuta un Paese illiberale, dove basta un tweet di larvata protesta a finire in galera, preda di una crisi economica che sta distruggendo il passato boom e di una rinnovata guerra civile. Uno Stato sempre più instabile preso in ostaggio dal suo leader, che per le sue folli aspirazioni di potere tenta in tutti i modi di destabilizzare l’area già preda di conflitti sanguinosi.

La speranza è che le elezioni del 1° novembre pongano fine alla storia di Erdogan e consentano al Paese di ricominciare il suo percorso.

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