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A dieci anni dalla seconda guerra in Iraq

di Mauro Indelicato

Avere 23 anni, come il sottoscritto, è senza dubbio una bella esperienza, perché si inizia ad assaporare il gusto dell’obiettività su eventi a cui si è avuto il privilegio di assistere: se fino ai 20 anni l’obiettività riguarda eventi letti sui libri di storia, a 23 invece la mente inizia ad elaborare episodi che si sono provati o sulla propria pelle o da semplici spettatori televisivi.

E’ il caso, per ciò che concerne la mia generazione, della guerra in Iraq, il secondo conflitto sulle sponde del golfo per la precisione: sembra ieri, ma invece la concitazione di quei giorni, i dibattiti tra favorevoli o non favorevoli all’attacco americano e l’apprensione per i civili iracheni pronti a subire la terza guerra in 21 anni, sono datate di 10 anni.

Aggiungendo un particolare nel ricordo personale di quei momenti, esattamente 10 anni in questo giorno ero seduto sullo stesso divano da cui ho assistito ai principali mutamenti storici del mio tempo: su questo stesso divano infatti, ho visto lo tsunami del 2004, la morte di Wojtyla e l’elezione di Ratzinger,  gli attentati di Madrid e Londra, le olimpiadi di Pechino e tanto altro. Ricordo che seduto in quel divano, alle 3 di notte, in molti si aspettavano la fine di una farsa enorme creata ad arte da George W. Bush, ossia l’ultimatum lanciato a Saddam Hussein: “Lasci il Paese a quell’ora o sarà guerra” proclamava il presidente americano dal suo studio ovale.

Tornando al discorso inerente lo sguardo obiettivo su eventi storici che iniziano ad essere datati, se di solito si dice che una determinata decisione importante, inizialmente vista con perplessità, nel corso del tempo acquista una certa dignità storica, la guerra in Iraq invece, anche e soprattutto a 10 anni di distanza, appare sempre più una follia, per tanti motivi.

Il primo, quello più scandaloso, è la nozione data a questo conflitto dalla stessa amministrazione americana, che lo definì come “preventivo” e lo giustificò in nome di una difesa nazionale minacciata dall’estremismo islamico: traslando dal diritto internazionale a quello penale il concetto di “guerra preventiva”, è come se si giustificasse una detenzione prima ancora che venga raccolta qualsiasi prova, perché quel determinato soggetto potrebbe essere pericoloso per la società.

Di fatto, è quello che hanno fatto gli USA con Saddam: l’agenda di Bush prevedeva l’esportazione della democrazia e quindi l’automatico attacco ai paesi definiti “canaglia”, anche in mancanza di prove. Quell’anatema dell’ultimatum poi, è stata la ciliegina sulla torta: obbligare un altro capo di stato, anche se dittatore, a lasciare il Paese e ad addossargli la responsabilità del bombardamento sui suoi cittadini, è un’aberrante esplicita intromissione nella sovranità di una nazione, la quale ha creato un pericoloso precedente storico nel diritto internazionale, fortunatamente, almeno per il momento, tralasciato per via dell’insuccesso militare e politico della campagna “Desert Storm”.

Proprio il fiasco di una guerra annunciata come “lampo”, ma poi prolungatasi e macchiata dal sangue di migliaia tra militari e civili, è il secondo aspetto negativo da sottolineare: ancora una volta, non solo gli USA, ma tutto il mondo occidentale, presente in massa in Iraq sotto l’egida dell’ONU, non ha considerato i risvolti culturali di un attacco al cuore del mondo arabo, privilegiando soltanto invece l’aspetto militare. Questo ha fatto sì che tanti soldati si trovassero esposti in prima linea davanti alla reazione popolare, producendo episodi come quello del 13 novembre 2003, quando a Nassiriya un camion bomba uccise 19 italiani tra soldati, Carabinieri e civili.

In generale, da un punto di vista militare, una guerra che doveva essere lampo e doveva finire con la caduta di Saddam, è invece andata avanti per un lungo periodo, con un Iraq profondamente destabilizzato, in cui ancora adesso gli attentati terroristici fanno parte della quotidianità per gli abitanti ed in cui le tre anime del Paese, ossia la parte sunnita (a cui apparteneva il rais), la parte sciita e quella curda, hanno realizzato un equilibrio solo sulla carta, spartendosi le poltrone ed il potere, ma di fatto faticano ad unire quello che i media occidentali definiscono “nuovo Iraq.”

Se la guerra in Iraq è stata una mostruosità politico – militare, bisogna considerare anche il fallimento dell’intera dottrina Bush, quella che teorizzava ancora un’America padrona dello scacchiere internazionale, che per “motivi di sicurezza nazionale”, come amava definirli il repubblicano, attuava una politica estera aggressiva, tale da scavalcare anche l’ONU e tutti gli altri organismi internazionali. Inoltre, la profonda cesura operata da tale dottrina, basata sul “o con noi o contro di noi”, oltre a risultare anacronistica ad oltre dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, oggi fa sentire i suoi effetti più brutali nella rincorsa agli armamenti operata da quei paesi che si sono sentiti profondamente minacciati dall’accelerata data da Bush junior all’aggressività estera di Washington, causando diverse tensioni in molte aree del pianeta, come per esempio nella penisola coreana.

Un effetto a catena, che è andato ben oltre i confini iracheni e dello stesso mondo arabo; le bombe su Baghdad, hanno forse rappresentato l’estremo tentativo americano di rappresentare ancora l’unica super potenza su scala mondiale: in realtà, la guerra ha avuto l’effetto opposto, gli USA hanno speso sforzi e Dollari in quantità tra Iraq ed Afghanistan e non hanno oggi la forza di incidere pesantemente ed unilateralmente a livello internazionale, come dimostra una progressiva, lenta ma inesorabile perdita di peso in medio – oriente, in cui diversi regimi vicini al governo americano si sono dissolti.

Oggi gli USA vivono una profonda crisi interna, con un debito pubblico enorme, con diversi Stati in default e con una spesa militare che dovrà gioco forza essere ridimensionata negli anni ed ormai sembrano lontani i tempi in cui gli americani sembravano poter fare a meno dell’appoggio anche degli alleati storici.

Ma non solo gli attori di quella guerra sono oggi mutati: è cambiato il mondo intero, c’è stato l’avvento decisivo di internet, dal 2007 la crisi causata dagli attacchi speculativi della finanza di Wall Street imperversa soprattutto nel vecchio continente.

La sensazione quindi, è quella di un’ambiguità della percezione del tempo trascorso dalla seconda guerra del golfo: da un lato questi 10 anni sembrano un attimo, dall’altro invece sembrano un secolo, perché di fatto i mutamenti globali in questo decennio sono stati tanti e tali da far apparire il nostro pianeta quasi un’entità estranea anche a noi contemporanei. Si può ben dire, a guardare i primi anni 2000, che se esiste al mondo un qualcosa che va più veloce della luce, forse non è da ricercare nei neutrini, ma nella velocità della nostra storia contemporanea.

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