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Il Pil torna a salire ma la gente sta peggio

di Salvo Ardizzone

Sembra che si sia scoperta l’acqua calda; dinanzi all’evidenza, i relatori d’un convegno internazionale tenuto presso il Palazzo di Vetro dell’Onu hanno potuto gridare ai quattro venti, e senza tema di smentite, ciò che fino a poco tempo fa era liquidata come una sciocchezza: anche se in molti paesi il Pil sale, come negli Stati Uniti, la gente sta peggio.

Per anni è stato predicato come verbo assoluto che non bisognava intervenire sull’economia, che il mercato si sarebbe autoregolato e che qualunque intervento avrebbe provocato disastri. Peccato che i disastri li abbia combinati il mercato, abbandonato in balia di avidi speculatori che, per sovrappiù, hanno lasciato la bolletta da pagare alla collettività.

Come molti relatori hanno sottolineato, dal premio Nobel Joe Stiglitz al nostro Fabrizio Barca (ex Banca d’Italia ed ex ministro), il fatto che la ricchezza cresca, da solo non basta affatto a garantire crescita, sviluppo, diffusione del benessere e diminuzione dell’area del disagio e della povertà; è il come la ricchezza è distribuita che conta.

Senza appesantire il ragionamento con grafici e statistiche, diciamo a mo’ d’esempio che nel periodo fra gli anni 50’ e 70’ (anni caratterizzati da continuo sviluppo, con l’unica parentesi della crisi petrolifera del 73) la distribuzione della ricchezza si disegnava come una piramide con una base assai vasta che saliva con gradualità. Per intenderci, le diseguaglianze (che pure c’erano, eccome!) erano meno marcate e la differenza fra i redditi alti e quelli bassi più contenuta. Ciò significava che un’area sempre più vasta della popolazione veniva inclusa nella sfera del benessere, con un marcato effetto di ascensore sociale ed economico che coinvolgeva moltissimi soggetti.

Col passare degli anni, e per effetto di politiche economiche improntate sempre più al liberismo (ovviamente parliamo in generale, perché a limitarci all’Italia, molto dovremmo dire su certo capitalismo parassita che ha lucrato rendite di posizione e sussidi comprati dalla politica), la piramide del benessere si è progressivamente ridisegnata, tendendo sempre più ad un effetto “cuspide” che ha ristretto la quantità di ricchezza a disposizione della base per spostarla, in quantità sempre maggiore, presso un numero sempre minore di soggetti; l’area della popolazione inclusa nella sfera del benessere è diminuita (e tende a diminuire sempre più rapidamente) e l’ascensore sociale ed economico si è bloccato (in parole povere i ricchi divengono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri).

Ciò è accaduto per l’effetto di progressivo un cambiamento delle attività economiche, che da un’economia reale, ovvero basata sulla produzione di beni e servizi, si è spostata verso un’economia finanziaria, basata sui guadagni derivanti dall’impiego di capitali. E la stessa economia reale ha finito per essere contagiata da questa ottica, con imprese industriale costrette a fare utili e programmi sull’arco di tre mesi, invece che nel corretto orizzonte degli investimenti.

Il fatto è che questa tendenza, oltre che generare ed esasperare diseguaglianze e squilibri sempre più marcati, danneggia e tanto l’economia nel suo insieme a prescindere dal Pil, in quanto occorre tener presente che mentre i redditi bassi e medi per lo più generati da una correlata produzione di ricchezza tendono a trasformarsi in consumi, i redditi alti (e più alti sono più è marcata la tendenza) vengono destinati in gran parte all’accumulo e poi all’economia finanziaria, sfuggendo da quella reale. In tal modo diminuiscono i consumi e gli investimenti vengono distolti dalla produzione di beni e servizi per essere destinati a impieghi finanziari; il processo genera un circolo perverso che deprime l’economia stessa fino a condurla in recessione, con tutte le conseguenze sulla società.

È la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, che tanti danni ha fatto e ancora minaccia di farne senza un reciso cambiamento di rotta nelle politiche economiche, capace di disinnescare sia il pericolo povertà, che minaccia anche i Paesi più avanzati con l’esplodere dell’area di disagio sociale; sia la distruzione dei comparti produttivi proprio nei paesi industrializzati (e proprio come stiamo vedendo in vaste parti del nostro), dove la quota di capitali investiti in attività reali decresce vertiginosamente.

A conclusione di questo ragionamento, giova ricordare alcune cose; primo: i capitali non hanno patria, quando hanno sfruttato il paese dove sono stati generati, possono emigrare facilmente in cerca di altri pascoli dove ingrassare; le attività produttive, una volta distrutte, impiegano molto tempo per ricostituirsi (se mai lo fanno) e con altissimi costi sociali.

Secondo: con buona pace di certi incorreggibili soloni, il mercato non si è mai autoregolato; esso, se lasciato a se stesso, diviene una bestia avida e ottusa che, con l’unico obiettivo di massimizzare il profitto a qualunque costo, finisce per distruggersi e con sé l’economia che lo ospita, come troppi esempi attuali ci ricordano.

Terzo: uno sviluppo sostenibile e prolungato non può essere raggiunto e mantenuto ignorando le disparità e le diseguaglianze estreme, come dice Stiglitz. Oltre che un doveroso dettato etico, è nell’interesse dell’efficienza di lungo periodo dell’economia e della società.

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