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Dalla Turchia una lezione di stile per la “vecchia” Europa

di Mauro Indelicato

La Turchia non molla: le minacce oramai non più tanto velate, ma dirette ed esplicite da parte di un Erdogan che si presenta sul palco con una giacca a quadretti che sa più di casa Vianello che di un capo di governo che afferma aver perso la pazienza, non intimoriscono le migliaia di giovani ancora assiepati nelle piazze delle città principali del Paese.

Non solo Istanbul ed Ankara, ma anche Smirne ed altre almeno 90 città, secondo gli ultimi dati, risultano nel bel mezzo del fermento di quello che gli analisti chiamano “primavera turca”.

Diversi gli spunti interessanti di questa rivolta che coinvolge un Paese considerato, fino a poco tempo fa, quasi immune da venti di protesta, visto il rendimento economico del tutto positivo rispetto ai vicini europei e mediterranei; quello che risalta maggiormente agli occhi, specie se consideriamo il motivo iniziale della protesta, ossia la difesa del Gezi park di piazza Taksim, è il grande attaccamento a quelli che sono i valori etici nazionali: difesa del territorio, difesa della laicità, difesa di un modello di società sulla quale è stata fondata la moderna Turchia post–Ataturk.

Alzi la mano chi oggi in Italia si aspetti che, nel nostro Paese così squallidamente inghiottito dal peggio della cultura occidentale, per la difesa di uno spazio verde si scateni una rivolta; nello stivale, dal dopoguerra in poi il cemento in ampi tratti del territorio ha divorato anche la storia di numerosi luoghi senza che nessuno battesse ciglio, ad Istanbul invece ancora c’è ampio spazio a quelli che sono i valori del “gusto del bello” ed al sogno di una città che mantenga le tradizioni e che eviti il dilagare del cemento.

Protestare contro un centro commerciale al posto di uno dei parchi centrali di Istanbul, vuol dire ribellarsi ad un modo autoritario di concepire la gestione del bene pubblico, modus operandi che Erdogan, dall’alto (o dal basso) dei suoi 11 anni di potere ha spesso ultimamente applicato.

Ma c’è un altro aspetto molto originale e quasi romantico di questa primavera turca; grazie a Marta Ottaviani, instancabile reporter dalla città sul Bosforo, che ogni giorno, al di là dei suoi numerosi servizi in onda durante la giornata in diverse testate nazionali, aggiorna su Twitter quasi 24 ore su 24 la situazione sul campo tanto da essersi abituata oramai all’amaro “profumo” dei lacrimogeni della Polizia, è possibile vedere uno spaccato di vita quotidiana di piazza Taksim e conoscere più da vicino i giovani che in questo momento vivono sul selciato del quartiere.

Si nota da subito una grande organizzazione: ci sono tende in cui si cucina, tende adibite a deposito di farmaci ed altre invece nel quale si improvvisa un Pronto Soccorso per i feriti delle cariche o per chi non regge ai gas lacrimogeni; poi ancora, ci sono ragazzi preposti alla ronda, altri preposti invece al controllo di eventuali infiltrati, mentre il casotto adibito a spogliatoio degli operai del cantiere dell’oramai famoso centro commerciale, è diventato una sorta di “museo della rivoluzione”.

Non emergono ancora capi o gerarchie in questo eterogeneo e vasto movimento di rivolta, ma emerge già una grande organizzazione, che fa al momento di piazza Taksim una città nella città, una Istanbul giovane e fresca, forse anche più sicura della Istanbul attualmente presidiata dalla Polizia.

Tutto questo deve necessariamente far riflettere noi europei “ufficiali”; nonostante l’austerity imposto dalla martellante troika Bce, Ue ed Fmi, nonostante la perdita di uno stato sociale da sempre vanto del modello del vecchio continente e nonostante un continuo e forsennato sfruttamento del territorio, ancora non si è formato alcun movimento spontaneo che coniugasse protesta anti–sistema ed alternativa al sistema stesso.

A parte le molotov di Atene, Madrid, Lisbona e qualche altra capitale, nella “vecchia” Europa non c’è stato spazio al momento ad alcuna forma di protesta organizzata; gli stessi “indignados” spagnoli nel 2011, hanno lasciato ben presto le piazze ed ancor prima che le polizie attuassero delle rimozioni forzate.

Forse la causa è da rintracciare in un’altra differenza significativa tra piazza Taksim e le piazze europee: l’unione. Parlando su Facebook proprio con Marta Ottaviani, si è sottolineato un dettaglio di non poco conto: tra i ragazzi di Istanbul, sono presenti giovani con la maglia del Galatassaray o del Besiktas che si abbracciano e che fanno assieme le barricate.

In un Paese, come la Turchia, che del calcio spesso fa una vera e propria ragione di vita, vedere tifosi avversari mettere da parte il campanilismo è un qualcosa di decisamente raro e quasi utopico: “E’ quasi un miracolo” commenta la stessa Marta Ottaviani.

Anche se viviamo all’interno di un qualcosa che si ispira al concetto di unità, chiamata per l’appunto “Unione Europea”, le divisioni nel cuore del vecchio continente sono sempre più accentuate anche tra chi ha in comune una visione alternativa al sistema attuale.

Ma, personalmente, la supposizione principale delle differenze tra i giovani turchi ed i giovani europei, sta nei valori: in Turchia, la secolarizzazione non ha preso piede come nelle squallide società occidentali ed ancora è visto come un fatto positivo che un giovane per difendere un valore, religioso o patriottico che sia, rinunci all’uscita con gli amici o alle serate in discoteca e si immoli tra gli scudi ed i manganelli dell’antisommossa.

Nella “vecchia” Europa invece, sembra che i giovani, così temerari su Facebook o nei bar, non vogliano rinunciare ai falsi privilegi della falsa società del benessere, preferendo alla lotta per la rivendicazione dei propri valori, il rituale dell’aperitivo anche a costo di rimanere poi senza soldi per tutto il corso della settimana.

Da piazza Taksim quindi, dobbiamo prendere spunto per parecchi motivi: in primis, vi è la necessità di mettere da parte, proprio come i giovani turchi, degli stili di vita a cui eravamo abituati e far passare il messaggio, nelle nostre menti, che se si vuole un futuro nel quale il welfar state non sia cancellato e nel quale si riacquisti la sovranità sulle nostre vite, bisogna evitare ancora di dar deleghe o quant’altro, ma affidare il nostro futuro unicamente a noi stessi, riscoprendo quel gusto di far comunità e quel sapore di condivisione comune, che in Turchia è lite motive della protesta di questi giorni.

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