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Usa: Trump sfida la Cina su Taiwan

Trump, che in tutta la campagna elettorale ha indicato la Cina come un avversario, non ha perso tempo a prenderla di petto, in maniera dirompente per le abitudini felpate nei vecchi rapporti fra i due Stati.

TrumpLa Cina era passata sopra alla recente telefonata fra Trump e la sua omologa taiwanese Tasai Ing-wen, la prima dai tempi della svolta di Nixon nel ’72, derubricata con evidente imbarazzo a una trappola tesa da Taiwan a un neopresidente inesperto.

Ma quando in un’intervista alla Fox News il tycoon newyorkese ha detto di non sentirsi vincolato alla politica di “Una sola Cina” a meno che non si faccia con Pechino un accordo che includa anche il commercio, la reazione cinese è stata dura. Il portavoce del Ministero degli esteri ha dichiarato che il principio “Una sola Cina” è fondamentale per i rapporti cino-americani, ribadendo con ciò che Taiwan non è uno Stato ma è considerata una provincia ribelle che dovrà essere ricongiunta alla madre patria con le buone o le cattive.

Nel frattempo la stampa cinese, tenuta a bada dalla dirigenza di Pechino dopo la telefonata fra i due presidenti, è stata scatenata per definire Trump “un immaturo al pari di un bambino…totalmente digiuno della realtà dei rapporti fra Usa e Cina”.

In realtà, le sortite di Trump su Taiwan non sono gaffe estemporanee; dicendo che non comprende perché non possa parlate con il Presidente di un Paese con cui gli Usa intrattengono da sempre intensi rapporti, garantendone l’indipendenza e fornendogli aiuti militari per milioni di dollari, il neopresidente non fa che fare il finto ingenuo. Nella sua volontà di riequilibrare i rapporti con la Cina, soprattutto quelli commerciali, intende mettere sul tavolo una questione da far valere in sede negoziale, ma una questione che tutti i suoi predecessori hanno evitato di toccare.

Per Trump, quella contro Pechino è un’offensiva in cui sa di poter contare sull’appoggio del Congresso e delle Agenzie federali (Pentagono, Cia, etc.), a differenza della propria intenzione di rappacificarsi con Mosca, e intende sfruttarlo per mettere a segno un punto forte del suo programma.

Il fatto è che per Pechino Taiwan rappresenta un interesse fondamentale, e la sua riunificazione alla Cina continentale è giudicata inevitabile; insomma, è una “linea rossa” su cui i governanti cinesi non intendono (né possono) transigere.

Malgrado la leadership cinese abbia più volte dichiarato di voler cooperare con gli Usa e di non volerli sostituire alla “guida del mondo” (sottinteso: fino a quando non si sentiranno abbastanza forti), la sfida lanciata pubblicamente da Trump non può che essere raccolta. Soprattutto perché se la dirigenza di Pechino mostrasse debolezza su un simile argomento, “perderebbe la faccia” ovvero sarebbe delegittimata in toto segnando la propria fine.

Il fatto è che Trump non è un politico ma un businessman e ragiona come tale; fiutato che la Cina si trova in difficoltà, sia per il riaggiustamento della sua economia (enormemente squilibrata e afflitta da enormi bolle speculative oltre che dagli immensi debiti delle inefficienti imprese pubbliche), che per la lotta politica ingaggiata da Xi Jinping con le vecchie leve del partito, vuole approfittarne alzando l’asticella del confronto.

Con il grave rischio di una rappresaglia cinese, soprattutto se la leadership di Pechino si vedesse con le spalle a muro. Uno sviluppo reso ancora più pericoloso dall’incapacità cinese di prevedere e comprendere Trump, totalmente fuori dagli schemi diplomatici a cui Pechino è abituata, e che aumenta la tensione in un quadrante del globo già percorso da crisi pericolose.

di Salvo Ardizzone

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