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Profughi palestinesi, viaggio nel girone dei dannati

Viaggio nel girone dei dannati. Forse potremmo definirlo proprio così la visita che abbiamo compiuto all’interno dei campi profughi palestinesi del Libano.

Massacrati e cacciati dalla propria terra nel 1948, i palestinesi sono arrivati in Libano da profughi, esuli, clandestini e chi più ne ha più ne metta. Dal 1975 al 1990 sono stati al centro di una devastante e sanguinosa guerra civile libanese, in cui tutti erano contro tutti, grazie anche alle prepotenze in chiaro stile mafioso dei dirigenti dell’Olp. Inutile ricordare le numerose stragi di civili palestinesi, dalla distruzione del campo di Nabatiyeh nel 1974 a Tel al-Zaatar nel 1976. Oggi in dodici “confortevoli” campi di concentramento e venticinque insediamenti illegali sopravvivono circa 500mila profughi, di cui oltre cinquemila sprovvisti di qualsiasi documento, privi di ogni diritto e speranza, tranne quella di poter un giorno far ritorno in Palestina.

Il nostro tour inizia dal campo di Mar Elias, il più piccolo ma tra i più vecchi campi profughi palestinesi di Beirut. Il primo incontro è con il leader del Fronte Popolare che illustra subito le condizioni drammatiche e in continuo peggioramento dei profughi, denunciando un totale abbandono da parte dell’Autorità (Anp). Tappa seguente il vicino campo di Burj el-Barajneh, 27mila abitanti vivono in 750mila mq. Ci si rende subito conto delle drammatiche condizioni del campo; non esistono strade ma solo vicoli in cui si riesce a passare a stento una persona per volta. Visitiamo asili nido, orfanotrofi, laboratori sanitari e l’ospedale “Haifa” gestito dalla Mezzaluna Rossa che, con i suoi quarantadue posti letto e trentatré medici che si alternano giorno e notte, fornisce un’assistenza sanitaria di base a oltre 60mila persone.

La situazione sanitaria è drammatica, esiste solo un presidio per ogni campo attrezzato solo per le cure di primo soccorso. L’Unrwa (l’ente delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi) copre solo in minima parte le spese ospedaliere, spesso pazienti con gravi patologie restano privi di ogni cura. Le patologie più frequenti sono la talassemia, gravi disturbi intestinali causati dal consumo di acqua salata e allergie causate dall’umidità provocata dal poco sole che arriva tra gli stretti e bui vicoli dei campi. A Burj el-Barajneh, come in tutti gli altri campi, non esistono sistemi idrici, né fognari, né elettrici, ma fa bella mostra di sé la spaventosa e fitta ragnatela di fili elettrici scoperti e volanti, causa ogni anno di decine di morti per folgoramento, per lo più bambini.

Altro dramma comune è l’ampliamento verticale degli edifici a causa del continuo incremento demografico. L’acqua seppur salata (contiene il 60% di sale) viene prelevata da otto pozzi scavati all’interno del campo, ed ogni famiglia usufruisce in media 15 minuti di acqua al giorno. La sicurezza dei campi è garantita da una forza coordinata dai comitati popolari, al cui interno sono rappresentate tutte le diciotto fazioni palestinesi. La disoccupazione supera il 40%, quasi il 60% dei profughi lavora all’interno dei campi, poiché il governo libanese gli vieta lo svolgimento di ben settantadue professioni. Altre note dolenti provengono dal mondo dell’istruzione, a Beirut esiste solo una scuola superiore per gli oltre 65mila palestinesi che ci vivono. L’abbandono scolastico è in continuo aumento, ogni anno circa 1.100 studenti palestinesi raggiungono la maturità, solo l’8% ottiene una borsa di studio che gli consente l’iscrizione presso una delle università pubbliche permesse ai profughi palestinesi (esclusi da quasi tutte le facoltà a indirizzo scientifico). Prima di lasciare Beirut alla volta del sud, visitiamo il cimitero di Sabra e Chatila, teatro nel settembre del 1982 del massacro di oltre 5000 civili palestinesi ad opera della milizia cristiano-maronita delle forze libanesi spalleggiate dall’esercito israeliano.     

Il giorno seguente si arriva a Tiro, tra le più importanti roccaforti sciite del sud. Nella zona di Tiro vivono 95mila profughi distribuiti in tre campi ufficiali e dodici insediamenti illegali. Entriamo nei campi profughi palestinesi di El-Buss e Burj el-Shemaly, ed incontriamo politici, operatori umanitari e visitiamo scuole, asili nido, orfanotrofi e laboratori sanitari. Anche in questo caso ciò che si riscontra è il totale abbandono delle istituzioni, dall’Unrwa all’Autorità Nazionale Palestinese che da anni ha sospeso ogni tipo di aiuto e sostegno ai profughi (se escludiamo gli stipendi e le carte di credito che non fa mancare ai suoi “colonnelli” in Libano) malgrado incassi dalla comunità internazionale centinaia di milioni di dollari. 

Tornando al sopralluogo suscita interesse la scoperta di un piccolo cimitero tra i vicoli bui di Burj el-Shemaly; nel 1982 era un rifugio per civili che Israele ha appositamente bombardato. Le vittime dell’attacco furono novanta e il rifugio divenne cimitero. Riuscire a pensare o semplicemente immaginare di poter vivere in queste condizioni disperate sarebbe impossibile per chiunque, ma non per questa gente che dopo 65 anni di massacri, abusi e atrocità è stata sempre capace di rialzarsi e tornare a sperare. L’ultima tappa è la città costiera di Sidone in cui si trovano due campi profughi palestinesi (Ain al-Hilweh e MiehMieh) che ospitano oltre 120mila palestinesi, giunti in Libano nel 1948 e provenienti dai villaggi dell’alta Galilea. Dopo i rigidi controlli all’ingresso da parte dei militari libanesi si entra nel campo di Ain al-Hilweh, dove in un milione di mq. vivono oltre 80mila persone. E’ il più grande e turbolento campo profughi presente in Libano, numerosi sono stati gli episodi di violenza e scontri tra fazioni registrati negli ultimi anni. Proprio sull’aspetto della sicurezza interna i responsabili di Hamas e Fatah tengono a precisare che è stato raggiunto un accordo tra le varie fazioni e da circa un anno non avvengono più scontri, la speranza è che questa “pace” possa mantenersi.

La giornata prosegue tra visite e sopralluoghi, ma tutto diventa tragicamente simile, stessa disperazione e stessa rabbia, la rabbia di chi è nato e cresciuto in un campo profughi, nella miseria e nella privazione, senza diritti e senza futuro. Tornano alla mente quei benpensanti che a migliaia di chilometri di distanza si affrettano a condannare senza mezzi termini gli atti di lotta e di Resistenza che questi ragazzi, a cui nessuno ha mai concesso un’alternativa, compiono per coltivare il sogno di ritornare un giorno a casa.

di Giovanni Sorbello

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