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Isil, il nuovo network del crimine made in Usa

di Salvo Ardizzone

I media di tutto il mondo sono ogni giorno pieni di titoli sull’Isis (o Is o come meglio preferisce farsi chiamare); ne hanno fatto uno spauracchio globale su cui discutono improbabili analisti e politici disinformati, che al massimo sanno dove siano quelle terre, affastellando banalità insieme a colossali panzane, in un passaparola che fa di ogni bestialità ripetuta ossessivamente una verità assoluta. 

In questo articolo, noi, che di quelle terre e delle mille piaghe che le affliggono ci occupiamo da sempre, intendiamo fare alcune considerazioni su questo ennesimo fenomeno, montato come molti altri, per restituirlo almeno in parte alla realtà, gettando luce sui suoi veri scopi e interessi. Non ci lanceremo in improbabili ricostruzioni storiche, non serve, ci limiteremo a fotografarlo oggi, per quello che è, non per quello che viene da troppi rappresentato.

Intanto il leader, il cosiddetto “califfo”, il sedicente Abu Bakr al-Baghdadi; diciamo sedicente perché il suo nome vero è Shimon Elliot, un agente operativo del Mossad, che prima di mettersi (meglio, essere messo) alla testa dell’Isil, ha svolto diverse missioni nei Paesi arabi col nome di Ibrahim ben Uad ben Ibrahim al-Badri. Queste informazioni sono a disposizione di chiunque abbia il tempo e la pazienza di spulciare i file di Snowden, quelli dell’affare Datagate, e sono state riportate da diversi siti, ad esempio il Veterans Today, nell’ovvio silenzio generale. 

Adesso i miliziani. I media li hanno rappresentati come una sterminata ed invincibile “armata delle tenebre”, stimandoli a casaccio fino a centomila, nella realtà quei numeri sono abbastanza lontani, inoltre c’è da fare una distinzione: gli uomini capaci di combattere effettivamente non sono più del 20%, al massimo il 30% dei componenti, per il resto c’è un indistinto contorno di gente arruolata a forza, di sbandati attirati dalla possibilità di paga e di bottino e infine di turisti col kalashnikov calamitati dall’ossessiva attenzione mediatica, tutti elementi di poco o nessun valore militare che, alla bisogna, vengono usati come semplice carne da cannone, e infatti, quando trovano un avversario deciso, il rateo delle loro perdite è spesso altissimo. 

Il nocciolo duro dei miliziani, che ha maturato le esperienze di combattimento nella lunga guerra siriana e altrove, è composto da mercenari della peggiore specie, reclutati a suon di petrodollari ai quattro angoli del mondo musulmano e non solo, e che ora fa della violenza il suo mestiere.  

Veniamo ai mezzi, soldi e armi. Dall’inizio della guerra siriana un fiume di dollari è affluito a quei gruppi; per capirci, secondo una stima dichiaratamente per difetto, negli ultimi sei mesi del 2013, e alle sole formazioni che operavano nel sud di quel Paese, sono arrivati oltre 1,2 Mld di $; inoltre sono giunti continui carichi di armi e munizioni d’ogni tipo. Erano i tempi del non rimpianto principe Bandar bin Sultan, per decenni capo dell’intelligence saudita e dietro tutti gli intrighi di quell’area (per la cronaca, è stato defenestrato nel febbraio scorso, dopo l’ennesimo fallimento della sua delirante strategia). Ciò che serviva ad armare e pagare lautamente quelle bande per destabilizzare tutta l’area, eliminando i regimi ostili agli interessi del Golfo e d’Israele (si, Israele, e vedremo poi perché), era fornito da Arabia Saudita, Consiglio del Golfo, Turchia e anche dalla Cia (quella che poi manda i droni a eliminare i capi qaedisti che non sono funzionali ai propri progetti).

In breve quei gruppi si sono strutturati come network criminali, per sfruttare e cavar soldi in ogni modo dal territorio che arrivavano a controllare senza porsi il minimo problema delle devastazioni. L’Isil (ma per al-Nusra e il Fronte Islamico è lo stesso, solo che loro sono rimasti solamente in Siria) al momento sfrutta la produzione del petrolio siriano vendendolo attraverso la Turchia (che fa sia da cliente che da agente) tramite una pipeline costruita apposta, ricavando da 1 a 3 ml di $ al giorno, e vuol provare a far lo stesso in Iraq, ma la situazione lì è ancora troppo fluida. Inoltre, ha messo le mani su buona parte degli ammassi di grano iracheni, che sta già vendendo sui mercati tramite l’interessata compiacenza di Ankara, a cui ha pure venduto e vende i macchinari delle fabbriche delle zone occupate, auto rubate e ogni altro bene che riesce a predare. Non manca il contrabbando di armi e droga, il traffico di esseri umani e organi (si, di organi) e l’imposizione di taglieggiamenti, estorsioni, pedaggi ai camion e a qualunque merce che passi sul territorio che controlla. Da ultimo, come prassi, ogni volta che entra in un centro abitato, “visita” le banche; a Mosul, grande città al centro d’una zona petrolifera, ha rastrellato dai caveau 420 ml di $. Ormai gestisce miliardi e è una sorta di Tortuga al centro del Medio Oriente. 

Per quanto riguarda le armi ne hanno fin troppe, tanto che molte le vanno vendendo; a parte tutte quelle che hanno ricevute e che ricevono da Arabia, Turchia e dalla Cia per combattere al-Assad in Siria e che ora servono contro il Governo iracheno, a giugno, nei modi che diremo, s’impadronirono di enormi quantità di sistemi d’arma d’ogni tipo, abbandonati a bella posta nei depositi e caserme dell’esercito iracheno. Anche se non è semplice quantizzarle, secondo stime concordi, il loro valore arriverebbe a 1,5 Mld di $; solo a citare i prezzi più pregiati, si tratta di 72 carri da battaglia, almeno 700 Humvee e centinaia di blindati, pezzi d’artiglieria e autocarri. 

Parliamo degli obiettivi. La storia del “califfato” è una fola, un semplice slogan mediatico di grande effetto per calamitare l’attenzione del mondo su un “pericolo immane” (tale solo perché a nessuno conviene affrontarlo seriamente) capace di giustificare qualunque iniziativa nell’area, spacciata come risposta a quella minaccia. Ciò è funzionale alle strategie che il Golfo porta avanti da anni: destabilizzare i Governi che non può controllare e minacciare gli Sciiti suoi avversari; in questo l’Arabia ha accanto da anni Israele, interessato a tentare di mettere in difficoltà i suoi avversari principali, dando loro altri nemici da combattere: Iran ed Hezbollah, che da tempo hanno preso in mano la direzione dell’effettiva resistenza contro Israele. 

In realtà, raggiunte le dimensioni attuali anche a seguito del circo mediatico montato su di esso, l’Isil può seguire una propria strategia che tende semplicemente a due cose: da un canto vendere i propri “servizi” al migliore offerente, forte del proprio “marchio” rafforzato ogni giorno da una martellante “campagna pubblicitaria”, dall’altro continuare a spremere tutto il denaro possibile dal territorio controllato.  

Occupiamoci ora della strategia operativa e delle sue “conquiste” travolgenti. I media hanno passato l’immagine di quasi mezzo Iraq assoggettato al tallone di un’occupazione capillare: è l’ennesima favola di chi laggiù non c’è e preferisce non voler capire come stiano le cose. L’Isil controlla stabilmente solo alcune aree dove ha stabilito le sue basi, per il resto si sposta in colonne mobili di consistenza assai diversa, dalle poche centinaia di elementi fino ai circa 2mila, non di più. Immaginatele come bande di predoni che si spostano a bordo di pick-up armati di mitragliere e lanciarazzi; simili formazioni, che piombano su villaggi o cittadine, possono arrecare danni micidiali, certo, ma sono tutt’altro che irresistibili dinanzi a sistemi di difesa organizzati; per questo l’Isil non si sogna di scendere più a sud, dove troverebbe le milizie sciite ad attenderlo. Concentramenti più massicci, con armi pesanti come tank e cannoni, sono rari e occasionali; si tratta di bande sia pur agguerrite di predoni, non di un esercito, e, per i loro scopi, divenirlo non gli interessa affatto. 

Aggiungiamo tre notazioni per spiegare meglio la situazione sul campo. Nel giugno scorso l’esercito iracheno è collassato, permettendo la spettacolare avanzata dell’Isil, non per la potenza di quei gruppi di banditi, ma per un’operazione lungamente orchestrata. Nel Paese il malcontento di vasta parte dei sunniti era assai alto per la corrotta gestione del premier al-Maliki, interessato solo agli interessi propri e delle sua struttura di potere; dopo una prova generale a Falluja e Ramadi a inizio anno, quando l’Isil ha preso il controllo delle città, chi tira le sue fila da dietro le quinte ha orchestrato il colpo prezzolando almeno 150 ufficiali superiori e generali dell’esercito iracheno, nei fatti l’intera catena di comando, che praticamente hanno trasmesso ai reparti sul campo un solo ordine: ritirarsi abbandonando tutto. Per questo truppe da sempre male inquadrate e mal dirette, malgrado i tanti dollari investiti finiti nelle tasche di generali corrotti e funzionari dell’apparato di Maliki con la complicità di altri che sedevano a Washington, si sono squagliate nello spazio di un mattino.

I media hanno dipinto i peshmerga curdi come gli unici che s’oppongono all’Isil, eroi che si battono contro orde superarmate per salvare la gente dal massacro; così s’è giustificata una corsa a rimpinzarli di armi. Il fatto è che s’è stabilito un tacito accordo internazionale per la spartizione di fatto dell’Iraq; all’entità curda o futuro Stato che sia andrà il petrolio (tanto) di Mosul e Kirkuk, in un progetto che lascerà agli sciiti i giacimenti di Bassora e ai sunniti solo le sabbie dell’Al-Anbar, fabbricando tutti i motivi di un loro futuro revanscismo da sfruttare all’occorrenza. L’Isil è una scusa perfetta per armare i curdi e permettere che mettano le mani sui giacimenti del nord; attraverso l’occupazione dei pozzi per “proteggerli” e le armi, viene garantita la sostanziale riuscita della spartizione. Per inciso: la passerella di Renzi a Erbil, a parte la sceneggiata, mirava proprio a quel petrolio; grazie a qualche carico di vecchie armi sequestrate nel ’94, essere in prima fila per l’incasso. 

Un’ultima favola da sfatare: i raid aerei Usa che, sempre secondo i media, hanno fermato le orde del “califfato”. È un semplice insulto all’intelligenza; in un territorio piatto e aperto come quello iracheno, le colonne di pick-up sarebbero un bersaglio ideale per chi, come il Pentagono, dispone di tecnologie per attacchi diurni e notturni d’ogni tipo; in breve, solo a volerlo, avrebbe potuto incenerire l’Isil e le sue bande. Invece, nelle prime tre settimane d’interventi, ha operato 106 sortite e neanche tutte da attacco; giusto il minimo per mostrare bandiera e fingere dinanzi alla stampa di fare qualcosa, colpendo qualche diecina di mezzi e qualche blindato.  

L’Isil per ora è un sicario troppo utile perché chi può lo voglia combattere; verrà anche quel tempo (e non passerà molto), quando avrà completato la sua funzione; allora si sgonfierà all’improvviso come è già accaduto al network qaedista e ad altri simili fenomeni usa e getta.     

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