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Bosnia, a 28 anni dalla guerra regnano ancora fame e odio

La Bosnia è un piccolo Stato, circa 51mila chilometri quadrati di montagne su cui vivono 3.800mila abitanti, nel cuore di quella che fu la Jugoslavia. È lì che s’è consumato l’atto più sanguinoso della tragedia che disintegrò quel Paese, un incredibile puzzle di popoli e religioni che avevano convissuto per lunghissimo tempo prima che la follia del nazionalismo serbo e croato, e le ingerenze occidentali, non li trascinassero in una guerra assurda durata anni. Un conflitto che, fra pulizie etniche, massacri, devastazioni e stupri, è costato un mare di sangue e infinite distruzioni e le cui conseguenza non sono affatto concluse.

Una guerra del tutti contro tutti

In Bosnia, fra il ’92 e il ’95, fu una guerra del tutti contro tutti, con Serbi, Croati e Musulmani a scannarsi fra loro, con l’intervento massiccio di Serbia e Croazia in appoggio delle proprie etnie. Un solo nome basta a qualificare quelle vicende bestiali: Srebrenica, una cittadina musulmana fra terre serbe, un’enclave che doveva essere protetta dall’Onu dove, nel luglio del ’95, sotto gli occhi del contingente olandese che non mosse un dito, 8mila civili vennero massacrati dai miliziani serbi del generale Ratko Mladic e gettati in fosse comuni.

Alla fine, sotto la spinta della comunità internazionale, a Dayton, nel novembre del ’95, le parti furono praticamente costrette a porre fine alle ostilità. Quell’accordo non risolveva nessuna delle questioni esacerbate da anni di guerra, né colmava i tanti fossati scavati dal troppo sangue. Lo Stato rimaneva nella sostanza sulla carta, diviso in due entità di fatto separate: la Repubblica Serba (con i Serbi appunto) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (con i Croati e i Musulmani). Era un compromesso basato su una serie infinita di ambiguità che non potevano essere sciolte, e garantito da una presenza militare internazionale che s’è protratta, sia pur in forma attenuata, fino ad oggi.

Bosnia, situazione tutt’altro che stabilizzata

A 28 anni dalla fine della guerra, la situazione è tutt’altro che stabilizzata; le violente ed estese proteste popolari mostrano tutta la debolezza economica e sociale del piccolo Stato che, con una disoccupazione del 40% (!) e i bassissimi standard di vita, minaccia di collassare sotto la spinta di crescenti rivendicazioni salariali e disordini nei confronti del debole governo centrale. Al contempo, le condizioni di estremo disagio stanno già facendo sviluppare nella Republika Srpska (l’entità serba) forti movimenti di contestazione, che mirano alla secessione e all’annessione alla Serbia come soluzione dei problemi. Un simile sviluppo, visti i precedenti e le non ancora superate fratture della guerra, porterebbe con tutta probabilità al ritorno delle armi e all’aggravarsi di una crisi mai risolta.

Ritardi e complicità della comunità internazionale

In Bosnia, come nel resto dei Balcani, la comunità internazionale è intervenuta con uno spaventoso ritardo che ha aggravato enormemente il costo di vite umane e distruzioni. Quando l’ha fatto, ha puntato sostanzialmente a imporre la fine delle ostilità, senza preoccuparsi seriamente di costruire la pace, attraverso un solido programma che ricostruisse quel Paese, assicurandogli prospettive di crescita e sviluppo. Ciò che è stato fatto sono i soliti interventi di facciata, molte strette di mano dinanzi ai fotografi, pochi, pochissimi progetti di cooperazione internazionale che bypassassero le cricche politiche emerse dalla guerra. Il decisionismo (ipocrita) andava bene quando s’è scelto di sganciare bombe, ma s’è fermato dinanzi a corruzione manifesta e sprechi. È l’ennesima lezione della Storia che, come le altre, temiamo rimarrà inascoltata.

di Salvo Ardizzone

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