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Arabia Saudita nel mirino degli attivisti per i diritti umani: pena di morte, tortura e processi arbitrari nel Paese a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu

di Lucia Colandrea

Gli Anonymous di tutto il mondo sono tornati alla carica. Con l’hashtag #OpNimr hanno avviato una campagna per impedire la condanna a morte del giovane attivista saudita Ali Mohammed Baqir al-Nimr. “Non resteremo a guardare”, una vera e propria minaccia da parte degli hacktivisti, arrivata tramite un video pubblicato il 22 settembre in cui il gruppo denuncia le centinaia di condanne a morte eseguite in Arabia Saudita e chiede al governo di rilasciare al-Nimr.

Arrestato il 14 febbraio 2012 all’età di 17 anni, il giovane è stato definitivamente condannato a morte dal tribunale penale speciale di Gedda il 27 maggio 2014 per reati che includono la “partecipazione a manifestazioni antigovernative”, attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra. Il tribunale si sarebbe basato sulla “confessione” estorta con la tortura al giovane dagli ufficiali della Direzione generale delle indagini (Gdi) del carcere di Dammam. Esaurita ogni possibilità di appello, ora Ali può essere messo a morte in qualsiasi momento, appena il re ratificherà la condanna.

L’appello di Anonymous si unisce a quello di numerosi altri attivisti, giornalisti e uomini politici che con una serie di iniziative online si stanno mobilitando per salvare il giovane. Persino il nuovo leader del partito laburista inglese ha inviato una lettera a Cameron per chiedere di impedire l’esecuzione della sentenza. Il 26 settembre Anonymous ha annunciato l’oscuramento di tutti i siti web del governo saudita. Con un video indirizzato direttamente al sovrano King Salman bin Abdulaziz Al-Saud, gli hacktivisti hanno dichiarato di aver già messo offline il sito del Ministero della Giustizia e hanno pubblicato una lista di siti governativi da attaccare. Sinora hanno attaccato ben venti siti governativi e hanno oscurato temporaneamente anche la Banca dello Sviluppo del Paese.

Nel recente report di Amnesty International è apparso che l’Arabia Saudita è tra i Paesi che eseguono il più alto numero di sentenze, preceduta soltanto dalla Cina e dall’Iran. 102 le condanne a morte eseguite nel Paese tra Gennaio e Giugno 2015. Amnesty ha riscontrato un considerevole aumento delle esecuzioni per crimini legati alla droga. Circa metà delle esecuzioni nel 2014 e fino al giugno del 2015 sono state, infatti, motivate da crimini “non letali”, per esempio adulterio, furto a mano armata, apostasia, stupro o stregoneria. Sono però i crimini legati alla droga a motivare il maggior numero di condanne a morte in Arabia Saudita, sebbene la pena di morte non sia obbligatoria in questi casi.

Il principale mezzo di esecuzione della pena di morte in Arabia Saudita è la decapitazione. Anche al-Nimr sarà decapitato; per lui è, però, prevista una pena aggiuntiva: la crocifissione, riservata ai crimini più gravi e consistente nell’esposizione in pubblico del corpo dopo la morte come avvertimento. Non mancano esempi di condanne a morte per crocifissione in Arabia Saudita, sebbene si tratti di un metodo più raro. Nel novembre 2013, cinque yemeniti accusati di furto a mano armata e omicidio sono stati decapitati e poi i loro corpi crocifissi, ovvero, appesi ed esposti al pubblico per tre giorni.

Secondo l’associazione britannica Reprieve, Ali è stato arrestato senza mandato, detenuto in custodia cautelare per due anni e privato della possibilità di vedere il suo avvocato e di avere accesso alle prove contro di lui. Misure chiaramente in violazione degli standard previsti dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Arabia Saudita è stata recentemente invitata a ratificare dal Consiglio per i Diritti Umani. Ali è stato torturato e costretto a firmare una confessione che costituisce sinora la sola prova della sua colpevolezza. Nonostante il giovane e i suoi familiari abbiano denunciato i maltrattamenti e i raggiri che hanno condotto il giovane a firmare la confessione, il tribunale non ha ritenuto opportuno avviare alcuna indagine sulle presunte torture subite dal ventunenne durante la detenzione. L’associazione britannica Reprieve ha, inoltre, riferito che il processo di appello è avvenuto senza la presenza del giovane né del suo avvocato. Anche Human Rights Watch ha evidenziato l’incompatibilità delle modalità con cui il processo al giovane si è svolto con gli obblighi internazionali dell’Arabia Saudita, contratti con la ratifica o accessione di diversi trattati internazionali tra i quali la Carta Araba sui Diritti Umani e la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

Spesso in Arabia Saudita i processi per i reati capitali sono tenuti in segreto e sono condotti in maniera sommaria, senza l’assistenza di un rappresentante legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti. La condanna a morte di al-Nimr è una prova delle frequenti violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita in cui arresti e processi arbitrari, detenzione di dimostranti pacifici sono all’ordine del giorno e le misure anti-terrorismo sono spesso usate per criminalizzare qualsiasi forma di critica alle autorità, giustificando la detenzione di chiunque chieda riforme politiche e una maggiore tutela dei diritti umani.

Secondo il report di Amnesty, dal 2011, le autorità saudite hanno eseguito la condanna a morte di almeno venti persone accusate di aver partecipato alle proteste contro il governo nella provincia orientale. Nella prima metà del 2014 almeno sette attivisti sciiti sono stati condannati a morte. Tra di loro anche Ali al-Nimr. Dal 2011, infatti, sono aumentate le manifestazioni sciite contro le vessazioni subite dal governo in Arabia Saudita. Secondo alcuni attivisti, l’arresto di al-Nimr potrebbe essere una vendetta contro lo zio del giovane, lo Sheikh Nimr Baqr al-Nimr, imam sciita condannato a morte con varie accuse, tra le quali incitamento alla violenza settaria, confermate dai sermoni e le interviste che gli sono state attribuite. In base a quanto riportato da Amnesty International, che ha analizzato i testi dei discorsi dell’imam sciita, la sua attività predicativa rientra nei limiti del legittimo esercizio della sua libertà di espressione e non può essere considerata come un incitamento alla violenza.

Il caso di al-Nimr e la campagna per salvare il giovane attivista emergono proprio nel momento in cui l’ambasciatore saudita alle Nazioni Unite, Faisal bin Hassan Trad, è stato nominato a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016. Una nomina che ha suscitato l’indignazione globale visti i bassi standard di tutela dei diritti umani del Paese che nell’ultimo anno ha eseguito più di 100 decapitazioni.

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